La vicenda negletta di una diva del cinema muto affascinante e ambigua. Una prosa mossa, incisiva, crepitante. È “Silenzio”, il nuovo romanzo di Mazzucco, frutto di anni di ricerche

Forse uno dei tratti meno prevedibili e più stupefacenti del nuovo romanzo di Melania G. Mazzucco, “Silenzio. Le sette vite di Diana Karenne” (Einaudi) ha a che fare con quei momenti in cui l’autrice si rivolge direttamente al suo personaggio. La chiama per nome, la invoca. Più che un timbro pirandelliano, è il segno di una ossessione, nutrita da anni di ricerche in giro per l’Europa e per il mondo; di una confidenza quasi amorosa con la propria “creatura”: dando del tu alla sua Diana, Mazzucco conferma la dedizione alla ricostruzione delle vite sommerse, negate, cancellate, come quella di Tintoretto a cui ha dedicato un grande dittico romanzo-saggio narrativo («Questa vita si è inabissata»). Esistenze che vengono riportate alla luce segmento per segmento, dettaglio per dettaglio, con una intelligenza di archivista e insieme di narratrice che consente di vedere Diana Karenne non solo negli anni, ma nei giorni, nelle ore, nei minuti. È la vicenda negletta di una grande diva del cinema muto, una delle più ambigue e affascinanti, pioniera di un’arte allo stato nascente. In quell’Italia della metà degli anni Dieci, Diana incarna i desideri, i sogni e le aspettative di un nuovo pubblico, la platea del cinematografo senza sonoro. La magia del cinema! Ma anche la sua natura effimera: l’odore della celluloide bruciata fa pensare a un’arte fragile. «La creiamo usando il supporto più infiammabile che esista. La celluloide! Non siamo stati capaci di inventarne un altro. E non siamo in grado di proteggerla. Basta un refolo di vento, una scintilla, a cancellarci». Diana impara a gestire il silenzio rendendolo eloquente, costruisce sé stessa come diva e come produttrice, come imprenditrice e come seduttiva tessitrice di relazioni. 

 

L’ombra dello spionaggio grava su di lei come una piccola persecuzione, ma ciò che la rende così eccentrica e fuori misura è la tendenza a reinventarsi costantemente, a cambiare fisionomia, a mutare volto, identità e nome. In questo senso, le sei o sette vite di Diana Karenne sono vite alternative, una esplosione di eteronimi con le loro biografie parallele; e ciascuna vita è il sogno di un’esistenza possibile, trafitta comunque da un tormento, un’irrequietudine che non si placa. Diana, Dina, Candida, Nadejda, Madame Nadia, la protagonista di “Silenzio” è di volta in volta una versione imprevista, inattesa della ragazza con natali ucraini sbarcata in Italia a inizio secolo. Ottobre del 1914, «straniera, bionda, sola». Ma è il cinema – o il suo essere, forse più di ogni altra cosa, un’attrice – a fare da collante alle diverse esistenze di Diana. Un’industria che nasce e catalizza spiriti creativi e imprenditoriali che Mazzucco descrive nella loro ambizione, nel cinismo, talvolta nella cialtroneria, costruendo un fondale vividissimo alle mosse della protagonista – compresa e incompresa, blandita, vezzeggiata e anche osteggiata e criticata. Perché bisogna, per essere riconosciute, inventarsi la vita: quella che risponde all’orizzonte di attesa di uomini (maschi), amanti, faccendieri, produttori, spettatori. «Sei una donna. Sola». O quella che più somiglia alla natura profonda, al nocciolo di autenticità che ci smarca da ogni legame di sangue o acquisito? «Solo col tempo comprende la ricchezza della vita pseudonima. Essa non soggiace al potere tirannico dei fatti, è refrattaria alla cronologia e ai vincoli dell’identità... La persona immaginaria e immaginata non ha padre né madre, non ha patria né tempo: partorita dalla propria mente e perfino dai desideri che non conosce». Melania Mazzucco ha, in questo ponderoso e coinvolgente romanzo, saldato di nuovo e maestosamente le grandi passioni intellettuali della sua vita. La scrittura, il cinema, la storia. La storia: come materiale grezzo e misterioso, opaco e ustorio, da cui attingere elementi per riscattare dall’oblio vite di uomini e donne illustri e non illustri. Per redimere, con la forza della letteratura, l’inabissarsi dell’irripetibile singolarità umana. Tintoretto, Annemarie Schwarzenbach. Diana Karenne.

 

La prosa di “Silenzio” è mossa, crepitante: assume di volta in volta la fisionomia più congrua alla materia che tratta. Il talento narrativo e la duttilità stilistica di Mazzucco sono fuori misura: si vide subito nell’esordio, “Il bacio della Medusa”, quasi trent’anni fa; si rese smagliante in quel capolavoro che è “Vita” (Premio Strega nel 2003). L'indiretto libero, l'apertura lirica, descrittiva – il colore delle cose, dell’atmosfera, i gesti, il rumore e il movimento delle città. Gli affondi riflessivi, di chi vede alla distanza la vicenda e conosce un futuro che il personaggio ignora. Ma poi, costantemente, recupera una prossimità, una intimità: quasi che quel personaggio creato dal vero sia diventato l’interlocutore, l’interlocutrice segreta di una lunga stagione privata, «anni entusiasmanti e disperanti». «Perdonami se mi ribello al silenzio». Mazzucco lo sfida e lo riempie di parole, scrive il grande romanzo su Diana K. a cui pensava da oltre due decenni e scrive anche al posto di lei: che non è riuscita a tradurre, come avrebbe voluto, la sua larga e inquieta immaginazione in un oggetto di carta e inchiostro. Però ha scritto sei diversi romanzi dentro il groviglio delle sue vite parallele, scomparendo e ricomparendo nuova, sé stessa ma anche un’altra e un’altra e un’altra ancora. Mazzucco ricompone le tessere, riannoda i fili, restituisce le tante Diana a quell’unico corpo umano. E senza dirlo, lasciandolo intuire, spiega e celebra ancora una volta il potere della letteratura.