In Sudan la guerra civile semina distruzione. E ha costretto alla fuga dieci milioni di persone. Ora minaccia l’antica capitale del regno di Kush, governato un tempo dai faraoni neri

La guerra che semina da oltre un anno distruzione e morte in Sudan, costringendo alla fuga oltre dieci milioni di persone, rischia di spazzare via anche uno dei siti archeologici più importanti della storia umana: la necropoli di Meroe.
Posizionata in un angolo remoto nel Nord del Paese, dove le lande desertiche che la circondano incontrano le acque del Nilo, dal 2011 è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. A circa 230 chilometri dalla capitale Khartum, il sito è stato di recente sfiorato dagli scontri tra le Forze armate sudanesi e le Rapid Support Forces nell’ambito della guerra civile che, dall’aprile dello scorso anno, vede contrapposti i due fronti. Fino a qualche mese fa, la più importante città sudanese appariva come un Grand Hotel coloniale e délabré con divanetti a fiori nella hall, grandi tappeti démodé, le assi del parquet scricchiolante e l’ombra della regina Vittoria che ancora s’allungava attraverso i corridoi, con stampe e quadri d’epoca sulle pareti a mostrare con fierezza la loro storia.

 

Quella Khartum, affacciata da oltre duecento anni sulla confluenza tra Nilo Azzurro e Nilo Bianco, festante per il vociare degli studenti che sciamavano a fine lezione nei giardini e lungo il fiume succhiando aranciata con la cannuccia, non esiste più. Ridotta a un ricordo lontano, su tutte spicca l’immagine di ciò che resta del palazzo presidenziale, costruito durante il dominio turco nel 1826. I bombardamenti dello scorso maggio lo hanno trasformato in uno spettrale fantasma di cemento e marmo. Tanta distruzione potrebbe accanirsi anche sull’antica Meroe, capitale del regno di Kush governato dai “faraoni neri” nel III secolo a.C. L’importante sito archeologico, già esposto alle alluvioni stagionali del Nilo, è costantemente a rischio per le azioni militari nella zona. Trovandosi vicino a una miniera d’oro gestita dalla Meroe Gold, compagnia che risulta essere controllata dal gruppo di mercenari russi Wagner che sfruttano la concessione fornendo in cambio armi alle milizie, potrebbe essere assaltato in qualsiasi momento. Finora non sono arrivate notizie di danni ma, come sempre avviene in questi casi, la perdita del controllo del territorio e la partenza dei gestori del sito aprono la strada a saccheggi e scavi clandestini. Per raggiungere Meroe è necessario un viaggio di almeno tre ore e mezza su strade e piste non sempre confortevoli, che si estendono lungo il deserto per poi continuare su percorsi sterrati tra colline rocciose e piane sabbiose fino a Wadi al-Malik, un deserto “abitato” dai gruppi nomadi Bisharin. Addentrandosi verso nord si raggiunge il Nilo nel villaggio di El Ghaba, oasi nata lungo il fiume, ultimo avamposto prima dell’area desertica della Nubia. Già all’inizio di questo percorso si trovano i resti di due templi cristiani costituiti da numerose colonne, archi, capitelli decorati con croci copte che risalgono all’XI-XII secolo d.C., tempo in cui si sviluppò il piccolo regno di Makuria. Costruita trecento anni prima di Cristo - mentre nell’Egitto decadente saliva al potere Tolomeo e la contaminazione greca, romana, siriana, libica si spandeva tra guerre, occupazioni e spartizioni dei tesori e delle terre di un impero ormai in caduta libera - la fierezza e la prosopopea di Meroe sono ancora percepibili in ciò che resta del tempio che la sovrana dell’epoca, Arnekhamani, dedicò al re degli animali, il leone, facendosi raffigurare mentre ne conduceva al guinzaglio due esemplari.

 

Intorno a esso si estendevano le terme dei nobili, con sedili decorati con l’oro dietro cui scorrevano ruscelli che si riversavano in una grande vasca. Abitudini forse prese in prestito dai Romani. Qualcosa di questa civiltà ai confini con la Nubia è rimasto. Ma poco. E quel poco non è sufficiente a decifrare il loro linguaggio. Oltrepassato il tempio, si procede per altri 40 chilometri fino a ciò che resta della città reale abitata dalle tribù nomadi che non l’hanno mai abbandonata. Poco al di là, la necropoli. Chi ha avuto la fortuna di visitare il sito accompagnato dal guardiano, lo stesso da decenni, si addentra in un percorso alla scoperta di reperti straordinari. Spostando con la mano la sabbia che ricopre ogni angolo, si palesano brandelli di pavimento di pietra levigata bianca e nera a scacchi. Un rito che, ripetuto intorno a ogni monumento e sopravvissuto al tempo e alle ruberie, regala intense emozioni. La tomba di Amanishakheto, la “regina guerriera”, è il punto focale del viaggio alla scoperta di un luogo antichissimo e dei suoi reperti quasi sconosciuti: dai templi di Naga e di Musawwarat ai sepolcri policromi del Gebel Barkal. La piana più vasta di Meroe divenne il luogo di sepoltura dei re della dinastia dei “Faraoni del nuovo regno” nel 280 a.C.. Tra i resti dell’antica necropoli, le cappelle poste di fronte alle piramidi che conservano le pareti decorate da bassorilievi con immagini del Faraone e delle divinità che venerava.

 

Questi importanti reperti, sottratti alla morsa della sabbia, mostrano la vastità della zona sacra della città reale. Qui si trova ancora traccia negli usi e nei costumi di questa terra e dei suoi discendenti, che vivono parte della giornata in groppa a enormi cammelli. Non è difficile, nonostante l’incombenza della guerra, incontrare carovane di nomadi che attraversano l’enorme distesa punteggiata da decine e decine di piramidi dell’antica “città dei morti”. Il numero dei sepolcri che si elevano tra vellutate dune è impressionante: solo nella zona Nord si trovano 57 piramidi personali, con le camere mortuarie interrate. In totale sono oltre duecento. Il deserto ha conservato a lungo e diligentemente nelle sue viscere calde la storia di questo luogo magico. Per secoli. Ora che non ci sono abbastanza soldi e sicurezza per mostrarla al mondo c’è da augurarsi che continui a farlo.