Con questo racconto L’Espresso sostiene #unite, la campagna di scrittura lanciata da un centinaio di scrittrici e giornaliste per denunciare

Quell’ultima sera a letto si era accostato e me l’aveva fatto sentire duro anche se gli avevo già detto che volevo lasciarlo, o forse per quello. Mi dava fastidio quella sera, mi soffocava quell’abbraccio che altre volte mi aveva placato. Al tempo stesso sentivo già la mancanza del suo attaccamento morboso, infantile, il non voler sentire ragioni, pretendere di essere amato.

 

Me ne sono andata il giorno dopo. Sarei tornata più avanti a prendere la mia roba se lui non l’avesse distrutta. Se non avesse aperto pazientemente tutti i miei libri e non li avesse strappati a metà, uno per volta, centinaia di volte. Se non avesse tagliato a strisce i miei vestiti e lanciato dalla finestra la macchina fotografica. La colpa era mia. Se lui non avesse letto i miei diari non sarebbe arrivato a tanto. Aveva dovuto studiare ore per decifrare la password ed entrare. Una volontà encomiabile. La colpa era di quello che avevo scritto io. Se la colpa non fosse stata della scrittura, non avrei smesso di scrivere per un certo tempo.

 

Non ero più innamorata di lui e invece quella violenza finale l’ha riportato al centro della scena: se era stato capace di tanto solo per me, se era sceso così in fondo da lanciare, tagliare, rompere, scalciare, con quale diritto io avevo infranto il suo sogno d’amore? Da femminista avevo già letto il libro di Lea Melandri, eppure mi sono illanguidita di pena per quel bambino che soffriva a causa mia e non voleva più vedermi perché l’avevo distrutto, così diceva, ed era strano sentire quelle parole quando mi sentivo io ridotta in pezzi - caduta dal suo piedistallo – con tutti i miei libri e gli effetti personali che non avevo saputo difendere dalla sua furia.

 

Allora ho tentato di convincerlo: se anch’io a quel punto soffrivo così tanto, non era vero che non lo amavo più, forse potevo rimediare a quell’errore. Così ci eravamo rivisti, eravamo andati di nuovo a letto insieme, amiche e amici dopo avermi protetto in tutti i modi ne erano inorriditi. Cosa mi spingeva a rivedere una persona per la quale ormai provavo soprattutto paura?

 

Poi lui aveva preso a insultarmi a distanza, scrivendo messaggi in cui diceva che ero una persona orribile, che gli avevo rovinato la vita, tolto la fiducia nelle persone e nell’amore, che facevo schifo e io sapevo che un po’ era vero com’è vero per tutti di fare schifo, e lo pregavo di darmi un’altra possibilità, gli avrei dimostrato che ero buona, che mi ero sbagliata a causa di traumi pregressi, che l’avevo sempre amato solo che prima non lo sapevo. Piangevo molto quell’estate per me e per lui ma almeno ho letto in poche settimane tutti i fratelli Karamazov.

 

Intanto avevamo cominciato ad avere altri amori, soprattutto lui, perché io dovevo dimostrargli che ero brava, che lo aspettavo ma quando poi si riavvicinava ipotizzando di stare di nuovo insieme, allora dicevo no, presa dal ricordo di quella notte in cui mi aveva scritto: sto rompendo lentamente tutte le tue cose. Non rimarrà più niente.

 

Non era vero che non era rimasto niente, volteggiavano giganti sopra la mia testa il senso di colpa e la vergogna perché lui aveva letto i miei desideri più intimi, gli inciampi, perdendo per sempre quell’immagine bella che aveva di me e che l’aveva portato a fare strazio delle mie cose.

 

Quando siamo diventati quasi amici, ne avevamo bisogno entrambi per ricostruire qualcosa che si era spaccato quella notte, lui mi aveva regalato un libro in segno di pace e io lo avevo accettato. Lui aveva una nuova storia e io pure.

 

Poi sono passati altri mesi, le vite che scorrono prendendo una distanza, finché un giorno è venuta da me una ragazza, mi ha detto sono stata con lui dopo di te, lui mi diceva che la colpa era tutta tua se era stato costretto a distruggere le tue cose e io ci avevo creduto, ma poi anche con me ha fatto questo e quello, cose diverse ma uguali, e allora ho capito. Ci siamo guardate, mi è mancato il respiro. Allora i miei libri lacerati non erano valsi a nulla, a nulla era valsa la terra di un vaso che lui aveva rovesciato e che si era mescolata con quelle pagine strappate, sporcandole tutte, confondendo le parole. Solo quel giorno ho visto precisamente cosa aveva fatto, guardandolo nella vita di un’altra.

 

E poi c’è un secondo finale. Poco tempo fa ho incontrato un’amica comune che mi ha detto: «Certo sei stata una grande, anni fa, a tagliargli tutte le cravatte». «Chi? Io?». Non riuscivo a capire, ma la mia amica continuava… «Sì, l’ho trovato così…fallico. Lui che distrugge i tuoi libri e tu che gli tagli le cravatte». C’è stata una grande confusione nella mia testa, come se si alzasse un gas oscurante, ma no! Ho dovuto quasi urlare dentro di me prima di dirlo a lei. «No! Io non l’ho mai fatto! Lui vi ha detto questo?». «Sì…», l’amica mi guardava stralunata, continuando: «Davvero non l’hai fatto? Peccato». Qualche ora dopo avevo dovuto chiamare l’amico e l’amica che mi erano stati accanto all’epoca tutti i giorni e avevo chiesto loro: «Non ho tagliato le sue cravatte, vero?». «No!», avevano risposto in coro: «Come avresti potuto se ne eri terrorizzata?».

 

Ed è questo più di tutto che non gli concedo, di aver inventato un’altra me a cui per un attimo ho creduto. Ma poi sono tornata. Grazie alla voce delle amiche, degli amici, dei libri e anche del femminismo. In effetti sarebbe stato meglio tagliarle quelle cravatte. Non erano niente di che.