L’Irlanda che sprofonda nella dittatura. Un sindacalista arrestato. Una donna in fuga con i figli. È “Il canto del profeta”, la distopia vincitrice del Booker Prize 2023. Con cui abbiamo dialogato a 360 gradi

Vincitore del Booker Prize 2023, tra i premi letterari più importanti al mondo, “Il canto del profeta”, edito da 66thand2nd, è il quinto romanzo dell’irlandese Paul Lynch e nel Regno Unito è un caso editoriale. In un futuro prossimo, che pare il nostro presente, l’Irlanda è sotto la dittatura dell’estrema destra che con una serie di leggi speciali ha, di fatto, cancellato ogni forma di libertà. Eilish, protagonista della storia, rimane sola con i figli quando il marito, sindacalista, viene arrestato. “Il canto del profeta” è ciò che tutti dovremmo leggere, oggi: è come “1984”, “Il racconto dell’ancella”: è un monito, sembra quasi un messaggio dal futuro.

 

Lynch, il suo romanzo, pur essendo distopico, ha in sé temi estremamente contemporanei: l’avanzata dell’ultradestra, tra tutti. La letteratura può esser ancora usata come strumento d’interpretazione del mondo?
«Compito della letteratura è porre domande, non veicolare un messaggio. Quello è fare politica, e “la politica è il sasso attorno al collo della letteratura” diceva Stendhal».

 

Il canto del profeta però è un libro politico.
«No, la politica è una parte del tutto. Il mio è un romanzo sul dolore, su ciò che si ha perso e non può essere recuperato».

 

La letteratura quindi non può cambiare il mondo?
«Non credo».

 

Io penso che uno scrittore ponendo le domande giuste al momento giusto possa cambiarlo, il mondo.
«Sì, forse ha ragione».

 

Il romanzo si muove per cerchi concentrici: lei racconta tanto l’Irlanda - il governo di estrema destra che si fa dittatura - quanto Eilish, una donna comune che deve fare i conti con quel che sta succedendo al proprio Paese e alla propria famiglia.
«Da scrittore a interessarmi è questo movimento che va da quella che io chiamo complessità cosmica, cioè i sistemi più grandi - Paesi o popoli -, all’individuo, al particolare più piccolo».

 

Paolo Giordano nel suo “Tasmania” (Einaudi) fa un lavoro tanto simile al suo: partendo da contesti più ampi, con una sorta di zoom, si avvicina poi all’individuo. Lui lo fa pure storicamente, tornando all’atomica, e ciò che viene fuori è che ogni generazione ha avuto la sensazione di procedere sul bordo del precipizio.
«Sono d’accordo con Giordano: la Storia dell’uomo non fa che ripetersi ancora e ancora, in fondo; cambiano i cataclismi, cambiano i luoghi ma che il disastro stia capitando è l’idea che percorre il Tempo. Il punto è anche che l’apocalisse biblica non è che un mito. Il mondo, in realtà, finisce di continuo: l’apocalisse va di casa in casa, e bussa alla porta dei singoli individui. A Gaza o in Ucraina, oggi, per chi ci vive sta avvenendo l’apocalisse».

 

Nel suo “Il canto del profeta” al governo c’è un movimento di ultradestra, e oggi in Europa partiti del genere riscuotono un grande consenso. Se la Storia si ripete, crede che ci stiamo avvicinando al disastro d’inizio Novecento?
«Di certo c’è che abbiamo attraversato un confine che non avremmo dovuto mai più valicare, altro non saprei dirle. Negli ultimi vent’anni il mondo è cambiato velocemente e radicalmente, l’interesse di tanti per il populismo, anche, forse, per il totalitarismo agli inizi del Duemila ci sarebbe parso impossibile, invece eccoci qui. Le ragioni sono diverse. Anzitutto, la memoria vivente, per motivi ovvi, sta sparendo - con la morte di chi ha testimoniato la Seconda guerra mondiale sta svanendo il ricordo più lucido di quello che è successo. E poi c’è molta paura, in giro, ed è qualcosa che le ultradestre sanno usare bene. Lei però vuol farmi dire che c’è un disastro che incombe su di noi».

 

Non voglio farglielo dire, gliel’ho chiesto.
«Questo non lo so. Penso possa capitare di tutto, sì, e non rimarrei sorpreso se nel giro di quindici anni uno Stato moderno crollasse - e basterebbe questo, mi creda, a tirare giù l’intero sistema».

 

Ha detto che le ultradestre sanno usare bene la paura.
«Modificano la narrazione di quel che succede a loro favore».

 

Risultato?
«Viviamo in un mondo in cui non possiamo più neanche concordare su che cosa sia la realtà. Ognuno ha la propria idea, ed è quella giusta, ma non può essere reale, non funziona così - punto».

 

Si riferisce alle fake news che circolano in rete?
«Anche».

 

Perché le persone sono tanto pronte a credere a quel che viene detto loro?
«Tornerei alla paura: quando ti trovi il lupo davanti alla porta di casa, sei pronto ad affidarti a chiunque si dica capace di ucciderlo, quel lupo. L’Occidente sta attraversando un periodo difficile, tanti della classe media faticano a pagar l’affitto, far la spesa: ecco, quando senti di esser con l’acqua alla gola metterti nelle mani di un leader carismatico ti pare l’unica soluzione. La civilizzazione è un processo, un’idea, ma il tribalismo è, invece, un istinto, e quando la gente si sente minacciata torna alla tribù, al leader che sembra forte, duro».

 

È paura, insomma.
«C’è anche tanta rabbia in giro: le persone hanno la sensazione di esser ignorate e non lo sopportano. E perciò si affidano a leader che promettono di ascoltarli e, soprattutto, che individuano un nemico».

 

Mi viene in mente Hannah Arendt.
«Sì. Identificare nell’Altro, qualsiasi sia quest’Altro, il nemico cui dare la colpa del dolore del cittadino è importante nelle mosse di alcuni movimenti politici: canalizzano la rabbia verso una figura e promettono protezione».

 

I politici cui facciamo riferimento, invece, credono in quel che predicano?
«La Storia c’insegna che non ci credono per niente. Vogliono solo il potere».

 

Rimanendo sull’Europa: le leggi contro l’aborto in Polonia, quelle contro la comunità Lgbtq+ in Ungheria e in Russia e, in generale, il grande avanzamento dei movimenti di ultradestra in Germania, Francia, Italia e altrove. Una delle domande che si pongono Larry e Eilish è quale fosse, in retrospettiva, il momento di scappare. È questo, per noi?
«Ogni Paese è diverso e in molti la situazione è preoccupante, ma non credo sia il momento di spaventarci così: quando un governo comincia a proibire le manifestazioni, le proteste in strada vengono soffocate con la violenza: quello è il momento in cui bisogna dirsi che la situazione è grave».

 

In Italia è successo tre volte, e nel giro di una settimana - a Pisa, a Firenze, a Catania. Lo sapeva?
«No».

 

Tra i manifestanti c’erano soprattutto giovani, universitari e liceali - certi erano minorenni. Sono stati caricati e manganellati.
«È gravissimo: la libertà di marciare, che è un diritto vero e proprio, è un indice di buona salute di ogni democrazia. Se questa libertà viene intaccata, non stai vivendo più in una democrazia».

 

Pensa, quindi, che la situazione in Italia sia grave?
«Non so, non vivo lì. Ma la linea che ho appena tracciato, per me, è importante».

 

Senta, se le chiedessi d’immaginare l’Europa tra cinquant’anni?
«Non sarebbe uno scenario roseo. La crisi climatica è qualcosa di tanto grande, e al tempo stesso del tutto ignorato, che ci esploderà sotto ai piedi».

 

Cosa accadrà?
«Non riesco neanche a concepirlo».

 

Lei che ha scritto un romanzo sul futuro?
«“Il canto del profeta” pone delle domande, gliel’ho detto all’inizio: è il mio libro a chiederle: cosa accadrà?»