Con "La storia" ha portato in tv la potenza narrativa di Elsa Morante. Ora è tra gli interpreti della serie ispirata a Rocco Siffredi, con Alessandro Borghi. Dialogo a tutto campo con l'attrice: dall'importanza degli appelli degli artisti al ruolo dell'intimacy coordinator sul set

«Trovo allucinante che in questo Paese si abbia paura di dire “Restiamo umani”: questo mi terrorizza più di tutto del momento che stiamo vivendo... Lo dice con non poca preoccupazione Jasmine Trinca, fresca del successo della serie “La Storia” di cui è stata protagonista e attualmente sullo schermo in tutt’altra veste, quella di Lucia, la cognata prostituta di Rocco Siffredi nella serie biografica a lui ispirata, “Supersex”, disponibile su Netflix. Serie per la quale l’attrice è tornata a lavorare con il collega e ormai amico Alessandro Borghi, dopo “Sulla mia pelle”, film che ripercorreva l’ultima settimana di vita di Stefano Cucchi, “Fortunata” di Sergio Castellitto e “Supereroi” di Paolo Genovese.

 

Com’è stata questa nuova esperienza sul set con Borghi?
«Ogni volta che siamo l’uno di fronte l’altra siamo complici, basta uno sguardo per capire quando una scena tra noi è vera o quando invece non gira. Abbiamo raggiunto una complicità rara, c’è una grande onestà. Siamo attori diversi, lui mi commuove molto, mi piacerebbe un domani dirigerlo per fargli tirare fuori il più possibile la sua cifra di vulnerabilità che intercettai ai tempi di “Non essere cattivo”».

 

È ora di mostrare modelli di maschilità più vulnerabile?
«Direi proprio di sì, l’idea di “Supersex” è proprio decostruire l’idea della maschilità machista, per dire che un altro maschile è possibile. È una serie scritta da una donna (Francesca Manieri, ndr.) per comunicare che quello sguardo maschile esiste e spesso determina il mondo».

 

Nella serie tutti i personaggi usano il corpo come strumento di conoscenza del mondo e la sua Lucia non fa eccezione.
«È vero, il corpo per lei è una forma di conoscenza, sia nell’amore, sia nel sesso, sia in quella che vediamo come una deviazione drammatica che è il suo atto del prostituirsi».

 

Al giovane Rocco Siffredi dirà: «Lo faccio perché mi piace».
«Sembra un’assunzione di libertà e di autodeterminazione da parte di una donna che sin da giovane vuole lo sguardo altrui su di sé e sentirsi libera di volerlo. In realtà è una ferita, come mostrerà più avanti. Lucia è vittima di una forma mentale difficile da scardinare, familiare e culturale insieme: l’esercizio del potere maschile sulla libertà delle donne. Lucia è innamorata del suo uomo (lo interpreta Adriano Giannini, ndr), ma è lui a mandarla a prostituirsi. Ci tenevamo a raccontare un personaggio che conosce il mondo con la consapevolezza di chi la violenza la subisce e non la esercita».

 

Sul set c’era un intimacy coordinator: com’è andata?
«È stata la mia prima volta in assoluto con un intimacy coordinator, trovo sia una figura fondamentale per come vengono sia filmate che agite le scene di sesso e per garantire il rispetto tra tutti gli attori».

 

Perché?
«Sa quante ne ho viste in vent’anni che faccio l’attrice di mancanze totali di attenzione per quelle scene lì? Scene che sono molto delicate, possono risvegliare traumi, agiscono sull’inconscio, non possiamo mai sapere che cosa ha vissuto un’attrice o un attore, non c’è da scherzarci. Io oggi a 43 anni sono una donna capace di dire no a qualcosa che mi mette a disagio ma a vent’anni non lo si è necessariamente. Ben vengano gli intimacy coordinator».

 

L'attrice Jasmine Trinca

 

È appena tornata dalla Berlinale. Alla cerimonia di premiazione anche lei, insieme con altri giurati e premiati, ha detto: «Cessate il fuoco».
«Ma certo, per me è normale che gli artisti prendano parola sulle cose che accadono nel mondo. In Italia pensano che gli artisti non debbano prendere parola. Lo trovo terrificante, un Paese che non contempla la possibilità di esprimersi che futuro può avere? Pensano veramente che raccontandoci la storia “loro” il resto del mondo non viva, non veda, non esista? Il mondo è già oltre, i nostri figli sono oltre».

 

Perché?
«Perché spesso i governanti non vogliono e non sanno guardare dove sta un Paese, chi lo abita, dove va il mondo. Mi sembra un suicidio politico. Bisognerebbe avere invece l’intelligenza di capire e dare diritti a chi questo Paese lo compone, lo vive tutti i giorni, e ci lavora anche. Per diritti intendo anche e soprattutto quello di esistere e sentirsi riconosciuti. Per questo ho trovato commovente Ghali, mi risuona, parla di cose reali che non possiamo ignorare».

 

Lo sanno bene le nuove generazioni, che si interessano, vanno a manifestare…
«Trovo gravissimo che reprimano le manifestazioni con le manganellate. La risposta migliore è proprio la potenza di questa gioventù che non si lascia spaventare, continua a scendere in piazza, a prendere parola. Sono forti, sono tanti, lo vedo con mia figlia che ha quindici anni, quella voce e quella voglia di lottare per ciò che sentono come giusto non c’è manganello che possa zittirle».

 

È ancora in contatto con la sorella di Cucchi che ha interpretato in “Sulla mia pelle”?
«Ogni tanto ci sentiamo. Mi ha scritto dicendomi che ha visto “La storia” con sua figlia».

 

Sua figlia Elsa l’ha visto?
«Sì, e le è venuta voglia di rileggere il libro. E dire che data la mia enorme ammirazione per Morante all’inizio avevo paura, ero intimidita, a ripensarci mi sembra invece importante aver fatto arrivare nelle case di tante persone uno di quei racconti straordinari che davvero ci appartengono».

 

Alla regia di “La Storia” c’era Francesca Archibugi, alla regia di “Supersex” su tre nomi spunta quello di Francesca Mazzoleni: a che punto siamo con la rappresentanza femminile nel cinema?
«Indietro, nonostante i passi fatti. Siamo al punto che ancora se vedono una presidente di giuria nera, giovane, come Lupita N’Yongo che ha presieduto la giuria della Berlinale dicono: “Guardate che forzatura”. A nessuno sembra mai forzato quando a presiedere giurie ci sono le solite teste bianche maschili. Sarebbe anche ora di uscire fuori dal discorso ricattatorio fatto da chi ha sempre abitato il privilegio e ampliare gli orizzonti. Al cinema - e non solo - serve una maggiore rappresentanza di un mondo reale che è molto più complesso del solo universo maschile, e più complesso del solo binarismo».

 

In Italia chi lo fa?
«Penso che nella forma così come nel contenuto ci si potrebbe allontanare un po’ dal folklore o dalla nostalgia del tempo che fu. A me piace, tra gli altri ad esempio, il cinema di Jonas Carpignano. O il cinema cosiddetto militante, che tuttavia oggi è più complesso da mettere in piedi. Anche perché la settima arte non è esente dalle leggi del mercato e del capitalismo: si punta su quello che va, che fa profitto, lo si spreme finché possibile, e poi si passa ad altro. È successo con le serie, anche se ora sembra che il mercato stia vivendo un momento diverso. Una storia raccontata su uno schermo ha il potere di creare empatia anche nella persona più cieca della Terra».

 

Anche di un fascista?
«Di chiunque. Almeno, io ci ho sempre creduto e voglio continuare a crederci».