Cultura 1924-2024

Giacomo Matteotti, l'ultimo ostacolo per il Duce

di Andrea Frediani   27 marzo 2024

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La berlina nera che accosta sul lungotevere. La squadra fascista, i calci e i pugni. Il rapimento del segretario del Partito socialista unitario rievocato in un romanzo, a cento anni dall’omicidio

Roma, 10 giugno 1924, ore 16,30

 

Demetrio De Vitis si guardò intorno, poi fissò l’imbocco di via Mancini, che lo avrebbe condotto all’abitazione di Giacomo Matteotti. Rimase fermo qualche istante, appoggiandosi al parapetto sopra il greto del Tevere, e si chiese ancora una volta se andare fino in fondo. (…)

 

Riprese a camminare con decisione, accingendosi ad attraversare il lungotevere. Ma proprio in quel momento, notò una sagoma familiare. Era senza cappello, senza giacca, senza gilet, ma era proprio lui. L’onorevole era uscito più tardi di quanto pensasse, e si avviava a prendere il tram 15 che lo avrebbe condotto a piazza del Popolo. (…)

 

Continuò a seguire con lo sguardo l’onorevole. Lo vide fermarsi, esitare, attraversare la strada e raggiungere il marciapiede sul lato del Tevere, per poi riprendere a camminare. Poco dopo, notò una berlina nera accostare verso di lui. Ne uscirono cinque uomini che si avventarono sul deputato. Sbigottito, Demetrio si guardò intorno. C’erano due bambini, sul marciapiede opposto, che assistevano come lui alla scena. Un netturbino se ne stava immobile, qualche decina di passi oltre la macchina. Le urla dell’onorevole attirarono l’attenzione di alcuni pescatori sul greto del Tevere, che risalirono verso la strada. Qualcuno si affacciò dalle finestre dei palazzi che davano sul lungotevere.

 

E lui rimase a guardare dietro l’albero.

 

L’onorevole si difese con tutte le sue forze. In quattro, mentre uno si limitava a bloccarlo ogni volta che cercava di liberarsi dalla loro morsa, lo presero a calci e pugni. Poi uno degli aggressori rientrò in macchina e cominciò a suonare il clacson, probabilmente per coprire le urla dell’aggredito. 

 

 

Demetrio vide i due bambini attraversare la strada e avvicinarsi alla scena. Uno dei quattro prese a schiaffi il più vicino e gli intimò di andare via, e quelli ubbidirono. Si chiese cosa avrebbero fatto a lui, se fosse intervenuto. Si guardò intorno: non c’erano forze dell’ordine, nessuno che potesse dare una mano senza rischiare la propria incolumità. Tanto meno lui, pensò. I quattro cercarono di far entrare a forza l’onorevole nell’auto, provando a tramortirlo con le percosse, a sollevarlo perfino, ma lui mostrava un’insospettabile capacità di resistenza, puntando i piedi contro il parafango e continuando a urlare come un ossesso. E si muoveva con una tale rapidità che la maggior parte dei loro colpi andava a vuoto o lo urtava solo di striscio. Quando il più massiccio degli aggressori riuscì a centrarlo con un diretto al viso, gli altri lo sollevarono e lo infilarono in macchina. Quindi entrarono tutti dentro e l’auto ripartì sgommando; solo uno non fece in tempo, e rimase sul predellino in precario equilibrio. La macchina passò proprio accanto a lui; grazie al finestrino posteriore abbassato, che lasciava un varco tra le tendine, Demetrio riuscì a lanciare un’occhiata al suo interno. Ma poté solo vedere che l’onorevole, una volta sedutosi, aveva ripreso a battersi come un leone.

 

Seguì l’auto con lo sguardo, finché non la vide scomparire tra le altre, o forse svoltare verso Ponte Milvio. Solo allora uscì dal suo nascondiglio e avanzò verso il luogo della colluttazione, dove si era formato un capannello con le persone che aveva notato in precedenza.

 

«Ma chi erano quelli?» chiedeva qualcuno.
«Ma chi era lui, soprattutto... Gliene ha dato, di filo da torcere...».
«Di questi tempi cose del genere succedono. Sarà stato un sovversivo».
«E loro dei fascisti, magari della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale».
«O magari era un regolamento di conti tra delinquenti e basta».
«Ma no, era troppo distinto per essere un malvivente...». 

 

Comunque siamo in tanti ad aver visto e la polizia vorrà sentirci tutti. Vedete, c’è anche qualcuno alle finestre dei palazzi».
«Ah, io non testimonio certo: non si sa mai...».
«Io invece testimonierò eccome. Non è possibile che si debba vivere così: il governo ha detto più volte che ci sarebbe stato ordine, adesso».
 

Demetrio si rese conto che anche lui era un testimone. E sarebbe stato un ruolo molto spiacevole.

 

Troppe cose da spiegare. Troppa esposizione. Si allontanò lentamente, ritornando sui suoi passi, approfittando del fatto che nessuno faceva caso a lui. Come sempre nella sua vita, del resto. Ripercorse il tragitto compiuto dall’albero dietro cui si era nascosto, passò oltre, e dopo qualche altro metro notò un tesserino accanto al marciapiede, ai margini della carreggiata. Si avvicinò, si chinò e lo raccolse.

 

Era un tesserino di parlamentare. Ne aveva visti tanti, alla sede di piazza di Spagna del Partito socialista unitario.

 

Giacomo Matteotti era riuscito a gettarlo dal finestrino semiaperto durante la lotta, per lasciare una traccia del suo rapimento. Non avrebbe mai smesso di creare problemi ai fascisti. Era davvero l’osso più duro che Mussolini avesse mai incontrato sulla sua strada.

 

Ma non poteva essere lui a raccoglierlo. Lui non doveva essere lì, quel giorno, a quell’ora.

 

Poggiò il tesserino nel punto in cui l’aveva raccolto e se ne andò a casa.

 

Tratto dal libro “Tempesta su Mussolini”,© Rai Libri, di Andrea Frediani