In Giappone la chiamano Takotsubo. Sindrome di una perdita che provoca il crepacuore. Prosegue il nostro viaggio nei sentimenti contemporanei

Takotsubo. Sono stati i giapponesi, con quel talento del dettaglio magico, a dargli il nome. Vuol dire Trappola del polpo. In tutte le altre lingue, da sempre, è solo un cuore spezzato. Sembrava un’immagine poetica e vagamente colpevolizzante, stile “Balocchi e profumi”, ma adesso sappiamo che il cuore si incrina davvero, per stress o dolore, causando una forma improvvisa e acuta di insufficienza cardiaca. 

 

La sindrome è stata scoperta e battezzata negli anni Novanta da un team di cardiologi giapponesi, che analizzando il cuore di alcune pazienti ricoverate coi sintomi da infarto riscontrarono la variazione di forma del ventricolo sinistro, che – faticando nel pompare il sangue – appariva gonfio sulla sommità e ristretto al fondo, esattamente come il cesto usato in Giappone per pescare i polpi.

 

«Ho visto tante donne atterrite chiederci aiuto», racconta il ricercatore Radu Tanacli, che ha studiato per anni la sindrome di Takotsubo nella Clinica di emergenza cardiologica di Oxford: «Con la mano sul cuore impazzito, tra dolori, palpitazioni e affanno. Il dato interessante è che i valori degli enzimi cardiaci risultano in questi casi alterati, come ci fosse un’ischemia in corso, ma le coronarie non presentano alcuna ostruzione».

 

Alla base, un evento traumatico o un’emozione troppo intensa, come una perdita o una forte delusione, che sprigionano un eccesso di ormoni dello stress come il cortisolo, l’adrenalina e la noradrenalina, così aumentando la concentrazione di calcio a livello intercellulare, con conseguente danno del muscolo cardiaco. Guarirà solitamente nel giro di giorni o settimane, ma forse mai del tutto. O almeno così pare.

 

La scoperta sarebbe piaciuta a Marcel Proust, che nella “Recherche” racconta l’amore come un morbo, ottuso o invalidante, con la sua patogenesi scandita in quattro stadi: assuefazione (dunque dipendenza); ansia (per eccesso di investimento); gelosia (paura della perdita) e oblìo.  

 

La poeta polacca Wislawa Szymborska

 

Ma il cuore ha ragioni che la ragione non conosce, e infatti la cosa interessante è ancora un’altra. Di cuore infranto, o più prosaicamente cardiomiopatia da stress, si ammalano quasi soltanto le donne (90 su cento). E sono le donne, specialmente dopo i cinquant’anni, a soffrire o morire di crepacuore.

 

Sono più vulnerabili perché più sentimentali? E perché, dopo secoli di soprusi o patimento - mariti e figli in guerra, bimbi perduti in fasce, tradimenti e abbandoni, monacazioni forzate, solitudine o marginalità sociale - non hanno sviluppato nel tempo una migliore resistenza organica, un salutare adattamento di specie? Secondo Rita Levi-Montalcini la verità è elementare: «Il cervello ragiona a base di logica, il cuore ragiona a base di emozioni». Il corpo ha una sua intelligenza, memoria e reattività. E il corpo delle donne - cervello e cuore – è più sensibile e reattivo. Non a caso la letteratura, da Didone a Ofelia, da Emma Bovary ad Anna Karenina, ha sempre fornito esempi e modelli (ahimè, anche modelli da imitare o vagheggiare) di cuori infranti, spezzati, frantumati e sciolti solitamente dentro gabbie (non solo toraciche) femminili.

 

La poeta Wislawa Szymborska esprime bene questa vocazione pluriventricolare, che abbatte argini e misure: «Ascolta come mi batte forte il tuo cuore». Ma già Rita Pavone, a dirla tutta, nel 1963 cantava in modo accorato e fiammeggiante la sua ecografia del cuore, parlandogli con compassione e slancio: «Mio cuore tu stai soffrendo». E proseguiva, con tragica premonizione, «per te pace non c’è al mondo, sempre di più tu soffrirai, ogni giorno di più». La canzone si intitolava “Cuore”. (Che differenza col “Cuore matto” di Little Tony - 1967 - infantile e vendicativo, che non riesce ad accettare l’abbandono di lei, l’accusa di non aver mai detto il vero, si vanta del suo perdono e minaccia ossessivo di dimenticarla!).

 

Ma tornando alla trappola del polpo, perché proprio le donne, ancora oggi? La vera trappola è il sentimento romantico della vita e dell’amore, che a dispetto dei tanti traguardi ci asservisce e infragilisce ancora? Probabilmente sì. Il mondo fiabesco e infantile intriso di sogni e aspettative trasmesso per secoli alle donne tra narrazioni familiari, sociali e educative, condiziona ancora la visione dell’amore e della coppia, spazio di salvezza e protezione, denominazione e identità sociale, isola felice contro la dispersione. È la degenerazione di questa visione romantica, gerarchica e svalorizzante, che induce spesso le donne, persino le giovanissime, a essere indulgenti o addirittura lusingate dall’attenzione possessiva del compagno, che a suggellare la propria violenza e gelosia ripete - suscitando gioia e commozione - di amare troppo.   

 

D’altronde avete presente il film icona del romanticismo, “Casablanca”? Ingrid Bergman, contesa dai due amanti, dopo essersi mossa per tutto il film con aria languida e smarrita viene fatta oggetto di scelta/rinuncia dal generoso e nobile Humphrey Bogart, abdicando stordita e grata a ogni pronunciamento personale, a ogni assunzione di responsabilità.  Attenzione, però. Anche se non per tutti il cuore ha più stanze di un casino, come sosteneva Garcia Marquez, è comunque uno spazio trasformativo e open, diciamo un loft.

 

«Il crepacuore per la fine di un amore può essere in realtà una meravigliosa disgrazia», scrive la studiosa e psicoterapeuta canadese Ginette Paris nel suo libro “Cuori spezzati” (Moretti e Vitali): «Cioè un salto evolutivo della psiche, in quanto richiede un processo di individuazione e liberazione dalle dannose fantasie infantili di amore romantico e assoluto, salvifico ed eterno». Un cuore spezzato e rinsaldato, insomma, è più potente e evoluto, dunque capace di maggiori risorse, di un cuore rimasto sempre incolume e intero. Che questo sia il tempo dei cuori spezzati, o comunque crepati, umidi e sbocconcellati, è emerso anche dal festival di Sanremo, tra canzoni che grondano pioggia, lacrime e sentimenti rovinosi per entrambi i sessi. Non sarò un caso se i verbi più ricorrenti nei trenta testi sono: cadere, morire, piangere, tremare, perdere. E tra le parole più usate: notte, paura, pioggia, vento, freddo e perdono. Il paesaggio sentimentale è franoso e accidentato (anche accidentale), polveroso o alluvionale, la relazione precaria e disfunzionale, autocentrata o vittimistica, nella maggioranza dei casi francamente disperata.

 

Interessante, in questo quadro, che l’immagine dell’amore più riuscito (nella canzone di Mr Rain) è quella di due altalene, che dondolano vicine ma ognuna per conto suo. Ci stiamo forse liberando, almeno sul piano dell’immaginario, dell’insidiosa visione di Platone, dove ogni umano è in cerca della sua metà da cui è stato diviso alla nascita - e dunque fuori dalla coppia, che ci magnifica e sublima, siamo solo corpi amputati, anime dimidiate e in cerca?

 

Mah. Di cosa parliamo, quando parliamo d’amore. Se lo è chiesto furiosamente Raymond Carver nell’intera opera, tutta un viaggio intorno al sogno di interezza, sulla fatica di comunicare, sull’ambiguità del desiderio. Continuiamo a chiedercelo anche noi in certe notti torbide e vischiose, ma c’è una buona notizia: trappola o non trappola, il polpo ha tre cuori. Due di tipo branchiale e uno per irrorare il corpo. Sbeccato uno, ne restano due in pieno vigore. Il che, vista la scena, rincuora.