L’artista racconta il suo progetto per il Padiglione Italia. Protagonista la figura buddista che rinuncia all’illuminazione per aiutare gli altri

Massimo Bartolini è l’artista che rappresenta l’Italia alla 60ª Biennale d’Arte di Venezia. A un paio di settimane dall’apertura, in cui hanno imperato polemiche e glamour, proteste e frenesia, racconta del suo Padiglione Italia, dal titolo Due qui/To Hear e curato da Luca Cerizza. Un padiglione incentrato sul suono e sull’ascolto che invita a perdersi negli sterminati spazi delle tese dell’Arsenale. Un progetto poetico più che politico, decisamente singolare in una Biennale dominata da istanze legate all’identità, sia personali che nazionali. A emergere come presenza è la statua della figura buddhista del Bodhisattva, ascetico ma empatico e terreno: rinuncia all’illuminazione per aiutare gli altri a raggiungerla: che sia la nemesi dell’artista contemporaneo? Bartolini un po’ asceta lo è, e in questa intervista si astiene dal replicare alle esternazioni che Vittorio Sgarbi indirizza a lui e al suo lavoro.

 

Bartolini, finalmente il “suo” Padiglione Italia è stato inaugurato. Ci racconta i giorni dell’inaugurazione, le emozioni, le paure?
«Strani giorni. Un frullatore al quale non sono troppo abituato. Interviste a raffica, parlare sempre, alla lunga è difficile dire qualcosa di non banale. L’emozione più grande è stata quella di vedere tutti i lavori funzionare insieme e sentire che le previsioni sulla loro coralità erano giuste, o meglio che il risultato d’insieme era di gran lunga migliore di quanto avessimo mai immaginato. Le paure... adesso non è più tempo di aver paure, adesso bisogna soltanto abbandonare la presa».

 

Il progetto Due qui/To Hear obbliga a rallentare, a fare silenzio e ad ascoltare, ad astrarsi dal caos. Soprattutto durante la vernice, dove la parte relazionale è dominante. Cosa o chi le ha ispirato questo progetto? Qual è il messaggio che vuole mandare attraverso quest’opera?
«Il progetto parte da lontano, dal 2008, quando ho fatto il primo ponteggio organo. Insieme a questo sono cresciuti altri lavori. In mostra c’è un lavoro fatto per la prima volta nel 2005, Conveyance, una variazione dell’organo, Due qui, e due lavori nuovi, A veces ya no puedo moverme, e Pensive Bodhisattva on a flat. Più che un messaggio i lavori suggeriscono di ascoltare piuttosto che vedere, di passeggiare senza uno scopo, di perdere tempo. Sono strumenti per evocare una specie di “nomadismo interiore” che ci conduca ad avere attenzione per quello che ci sta intorno, strumenti che ci spingano verso la ricerca di grazia nel comportamento come mezzo per comunicare con questo intorno meraviglioso».

 

La figura del Bodhisattva

 

Quanto è difficile far ascoltare la voce individuale e il proprio linguaggio artistico in una Biennale dominata da istanze legate alle identità personali, e da polemiche legate alle identità nazionali?
«La fortuna di un artista, o almeno di un artista che, come me, privilegia il lavoro alla personalità è il sentire non solo le voci umane ma le voci del mondo. E il bello è che, a un certo punto, dietro il lavoro posso nascondermi. Mando avanti lui che è la cosa fondamentale. Il mio lavoro conta, non io. Tendo a pensare che il lavoro sia in assoluto la parte migliore di questo sodalizio tra me e lui. Il più saggio, il più maturo, il più ricettivo e per questo il più forte…».

 

Questa è la sua seconda partecipazione all’interno del Padiglione Italia: la prima volta era stata nel 2013 nella collettiva curata da Bartolomeo Pietromarchi. Come è cambiato da allora il sistema dell’arte in Italia, ma anche la Biennale stessa. E come viene percepita diversamente, all’esterno?
«Questa domanda mi coglie impreparato. Francamente non saprei come rispondere. Mi sembra che adesso ci sia una recrudescenza del mercato, molto pervasivo, ma allo stesso tempo vedo giovani artisti che tramite spazi indipendenti, residenze e borse di studio riescono a farsi spazio, a emergere. Questo è un periodo difficile è c’è la necessità di un impegno collettivo nel costruire legami che possano fortificare e consolidare il lavoro dei giovani artisti, a partire dalla scuola fino ai musei».

 

A proposito di giovani artisti, lanciamo la staffetta, come nostro portabandiera alle Olimpiadi dell’Arte: ci può indicare qualche nome che le piacerebbe vedere nel Padiglione Italia della prossima edizione?
«Ci sono tanti artisti, che avrebbero potuto essere al mio posto in questa Biennale e che potrebbero esserlo alla prossima. Siccome ho molti amici, artisti bravissimi, per menzionarli tutti mi servirebbe una pagina intera, mentre se ne menziono solo alcuni rischio di perdere qualche amicizia, quindi se non vi dispiace preferisco tacere su questo punto».

 

Cosa dovrebbe cambiare nel sistema Italia dell’arte e della cultura, a livello pubblico e privato, affinché gli artisti italiani possano affermarsi pienamente nei palcoscenici globali?
«Gli artisti italiani si stanno già affermando nel mondo, il ministero della Cultura sta dando una bella mano. Un passo ulteriore potrebbe essere quello di avere l’opportunità di partecipare a residenze piú lunghe all’estero. Avere dei fondi destinati all’artista anche solo per pensare, senza che debba per forza presentare un progetto; inventare un’esperienza artistica anche fuori dalle istituzioni, magari qualcosa come avrebbe voluto fare Radical Tools a Firenze o altre esperienze di quel tipo».

 

Un particolare di Due qui/To Hear

 

Nel suo progetto Due qui/To Hear spicca la statua di un Bodhisattva, che contribuisce a creare un ambiente spirituale e metafisico. Ci racconta di Bodhisattva, cosa rappresenta e cosa la affascina? Quale può essere il suo messaggio nella nostra contemporaneità?
«Il Bodhisattva è una figura della religione buddhista ma non è una divinità. Rinuncia all’illuminazione per aiutare altri a giungervi. La scultura nel Padiglione Italia è ispirata da un “Bodhisattva che pensa”, di provenienza laotiana. Mi piace questa figura che pensa proprio perché apparentemente non sta facendo niente. La posizione della mano aperta sotto il mento, come a fare da perno al volto, suggerisce una stasi nella grazia e nella chiarezza, così come la gamba accavallata sottolinea l’impossibilità al passo. Le parole che Bodhisattva suggerisce a tutti sono: pensiero, grazia, chiarezza, inazione attiva, attenzione, giustizia… Parole che oggi, se prese veramente sul serio, potrebbero essere scandalose».

 

Torniamo alle cose terrene. Vittorio Sgarbi ha definito il suo progetto un “orrore dell’umanità”. Risponda con tutta la misericordia di un Bodhisattva, perché questo giudizio?
«Non so se è misericordia, ma veramente non voglio rispondere a certe affermazioni... Mi accontento degli innumerevoli e inaspettati apprezzamenti di amici e non».

 

Per lei questa esperienza che cosa ha rappresentato? La considera un punto d’arrivo? E quali sono adesso i suoi prossimi obiettivi?
«Di certo traccia una linea e lascia dello spazio libero, che spero verrà abitato da nuove cose, cose capaci di stupirmi. Il prossimo sogno è quello di stare in studio da solo, giocando con parole cose e immagini. E poi di andare in qualche isola a fare una bella nuotata».