Un pensiero costante, ossessivo: l’impossibilità di diventare padre. Se le donne ricevono pressioni per riprodursi, agli omosessuali la cultura patriarcale chiede l’opposto

"Io-padre-mai” è un ritornello che negli ultimi anni ha iniziato a infestare i miei pensieri con la ricorrente ostinazione di un mal di denti. Va e viene. Ricordo a malapena come è cominciato, ma ricordo perfettamente dove. Ai matrimoni. Ai matrimoni degli altri. Perché una volta che hai superato i trent’anni e sei in dirittura dei quaranta, la maggior parte dei tuoi coetanei eterosessuali decide o inizia a parlare di sposarsi. È per questo che non ci vado più, ai matrimoni. Ho impiegato del tempo a dare un nome al mio disagio, a isolare ciò da cui mi sentivo accerchiato. A riconoscere di cosa avevo paura. E ho poi capito che erano i figli, tutti i figli degli altri. Non in quanto creature, ma in quanto simboli di una felicità che mi sarebbe sempre scivolata via dalle mani. 

 

Ho quasi quarant’anni, sono gay, ho orgogliosamente chiara la mia identità. Ma non mi sono mai chiesto se voglio diventare padre o no. A me non è capitato, come racconta il protagonista del film “Nata per te” (2023) – pellicola del regista Fabio Mollo ispirata alla storia vera della piccola Alba e di Luca Trapanese, il primo padre gay single adottivo d’Italia – di immaginarmi, così dice lui di sé, “padre da sempre”. Eppure, da sempre sono stato acceso da desideri onnipotenti, che per essere realizzati hanno sequestrato ferocemente ogni frammento della mia volontà. Com’è successo, allora, di attraversare questi anni senza mai inciampare nel padre che c’è dentro di me? E, soprattutto, questa mancanza di istinto paterno ha a che vedere con la mia omosessualità? 

 

Quando il governo di Giorgia Meloni, poco dopo l’insediamento, ha iniziato la sua battaglia contro le famiglie omogenitoriali, da ultimo con la proposta di legge per rendere reato universale la gestazione per altri, una riflessione si è imposta alla mia attenzione.

 

Da sempre, il patriarcato confonde l’amore con il possesso. Basta ascoltare il codice delle sue espressioni. Le madri “donano la vita”, “danno alla luce”, “mettono al mondo”. La maternità, cioè, viene incellofanata e spacciata all’ingrosso del pensare comune come un dono misterioso a cui votarsi in quanto donna. Mentre un padre i figli li ha, li possiede. Non a caso, quando ero piccolo e vivevo in Sicilia, per presentarmi a qualcuno che non mi conosceva mi veniva chiesto a chi appartenessi. E la risposta stava nel cognome che porto, quello di mio padre. Io appartenevo a lui, cioè al maschio. E mi legava a mio padre, l’uso che nove mesi prima della mia nascita lui aveva fatto dei suoi genitali. Come se fosse quello a definire la sua capacità di essere padre. Come se, ancora oggi, fosse quello a definire la mia capacità di essere padre. Ma è questo il centro, poiché il patriarcato ha questa imperitura ossessione di controllare l’uso che i singoli liberamente scelgono di fare dei propri organi riproduttivi, come se la civiltà stessa finisca per essere una specie di caratteristica a trasmissione sessuale. Per cui, se gli organi riproduttivi vengono usati in modo indebito, allora non si può essere padri.

 

Fino al secolo scorso, agli omosessuali veniva imposto di vivere nell’ombra. Jupien e Charlus per esempio, nella “Recherche” (1908-22) di Marcel Proust, fanno l’amore al buio dietro le persiane chiuse, e il narratore riesce solo a origliare i loro rumori senza che la luce della pagina illumini la loro ars amandi. Solitarie creature dell’oscurità, per troppo tempo gli uomini che amano gli altri uomini sono stati raccontati alla stregua di animali notturni, quasi fossero banditi dalla luce del giorno. E soprattutto soli, cioè destinati a esaurirsi in se stessi.

 

In questa rappresentazione era impossibile immaginare un’idea di filiazione. Non a caso, non ci sono figli nei classici della gay literature. Non ci sono in “Maurice” (1914) di Edward Morgan Forster, il primo romanzo in cui due uomini si dicono “ti amo”. Nemmeno, decenni dopo, in “Addio a Berlino” (1939) di Christopher Isherwood – il primo scrittore che rivela l’esistenza di una pulsante comunità omosessuale, abbattendo così lo stigma della solitudine –, o in “Paradiso” (1967) di José Lezama Lima, che racconta con intima compromissione personale gli inciampi emotivi di un ragazzo gay nella costruzione della propria identità. 

 

Immaginazione e desiderio si sono dunque sempre condizionati. Cosa sarebbero, del resto, i giovinetti sulla spiaggia che popolano i dipinti del pittore Henry Scott Tuke, se non la sublimazione dei suoi figli mai nati in quanto egli omosessuale nell’Inghilterra tra i secoli XIX e XX? E anche oggi, che parte di quel buio si è diradato, persino a me che sono contemporaneo a una modernità storica, viene ordinato di desiderare di meno. Mi viene concesso di unirmi, sì, e solo da pochi anni, ma non di sposarmi, e vengo obbligato a rinegoziare quotidianamente il paesaggio dei miei sogni. Mi viene imposto di non “scimmiottare” modelli secolari di altri, di non avere “atti di egoismo”, come se le parole “famiglia” e “figli” pronunciate dalla mia bocca s’insozzassero all’istante di una saliva collosa e malevola fino a diventare esercizi di greve stregoneria.

 

Sotto questo punto di vista, essere gay significa avere di meno, nascere amputati. Crescere corrotti da una rinuncia venuta su nella propria coscienza: la consapevolezza, cioè, che la propria omosessualità sia inconciliabile con la paternità. Così è stato per me: tale rinuncia l’ho fatta coincidere con la mia identità, l’ho acquisita come relativa alla mia natura, recidendo così di netto il mio potere procreativo tanto da corrompere la mia immaginazione, che non è mai riuscita a proiettare un figlio mio in un tempo futuro. Ho accettato, cioè, di essere sterilizzato dalle convenzioni. Di essere uno sterilizzato di Stato poiché il condizionamento in cui si produce la cultura patriarcale agisce in quell’anticamera della volontà cosciente che la precede e la genera.

 

Perché come è vero che sulle donne grava una pressione sociale che le pretende innanzitutto madri e mogli, dalle persone gay la cultura patriarcale esige ancora oggi l’esatto contrario. Di non riprodursi, di estinguersi, di votarsi al principio dell’autodistruzione piuttosto che a quello della conservazione, come accadeva agli incandescenti “Altri libertini” (1980) di Pier Vittorio Tondelli, intrappolati in un presente senza via d’uscita. È dura da ammettere, ma in una società come la nostra, dove fare figli deve tornare a essere cool – c’è chi dice così – se nessuno pone a un omosessuale interrogativi del genere lo sta essenzialmente riducendo a un corpo senza futuro. E in ragione di ciò, gli chiede di meno.

 

A me è stato chiesto di meno. Così, quel gioco di immaginarmelo, un figlio, io non l’ho fatto mai. Non ho pensato mai ai suoi possibili nomi. Non mi sono domandato mai cosa vorrei che avesse di mio (forse la mia bocca e le mie mani; la mia memoria e il mio impeto). E di nuovo “io-padre-mai” mi batte dentro, di nuovo manda in frantumi un pezzo di cuore, perché mi ferisce in una zona inaspettata dei miei desideri.