Interpreti del presente

Marina Abramovič: "Abbracciamo la semplicità nella nostra vita. Se non lo facciamo, prima o poi saremo perduti"

di Giuseppe Fantasia   29 maggio 2024

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Artista leggendaria e personaggio pop, pioniera della performer art e fenomeno pure sul web, continua a indagare i limiti fisici e mentali del nostro corpo. E mentre esplora tecniche e pratiche di longevità, porta in Italia la sua rappresentazione digitale, The Life. Con un messaggio, dopo una vita di eccessi e di provocazioni: abbracciare la semplicità

Marina Abramović e le sue ossessioni, i suoi ricordi e le sue paure che negli anni sono diventate performance. Insieme al dolore: «La mia specialità. Ho trascorso la mia carriera esponendomi di fronte al pubblico. Sono come uno specchio: (di)mostro che se riesco a sopportare il mio dolore, anche gli altri potranno farlo. Nel privato, è diverso: non sopporto il dolore fisico, un muro straziante e insopportabile. Solo chi riesce a superarlo arriva a un diverso stato di consapevolezza e a un’illimitata e nuova forma di energia».

Dal 5 al 18 giugno l’artista sarà in Italia, per la performance “The Life”, uno degli eventi più importanti di Pesaro Capitale della Cultura: una commovente meditazione sulla natura della memoria, proprio come arte ed energia, luogo del tempo e spazio che si dissolve e si riforma.

Intanto, una grande mostra itinerante ne celebra gli oltre cinquant’anni di carriera: partita da Londra, alla Royal Academy of Arts dove l’abbiamo incontrata, oggi la retrospettiva che porta il suo nome, e che riunisce oltre sessanta opere chiave dell’artista, è visitabile allo Stedelijk Museum di Amsterdam (fino al 14 luglio prossimo) e proseguirà facendo tappa a Zurigo, Tel Aviv, a Vienna. Il mondo dell’arte contemporanea, e non solo, la celebra, «e io rispondo, fin quando il fisico e la mente lo consentiranno», dice.

L’allusione è al 22 aprile del 2023, quando una gravissima embolia polmonare l’ha sorpresa, mettendone a rischio la vita. Quel pomeriggio sarebbe dovuta essere a Copenaghen per ricevere il Sonning Prize, «ma non riuscivo a respirare bene», ricorda: «Fui portata di corsa in ospedale e messa in terapia intensiva dopo tre interventi chirurgici e otto trasfusioni, un dolore incredibile. Se fossi salita su quell’aereo, oggi non sarei qui a raccontarlo. È stata l’esperienza più difficile della mia esistenza».

Sembra strano ascoltare queste parole dalla performance e conceptual artist più celebrata e richiesta al mondo, lei che ha fatto della paura del dolore e della morte i perni della sua espressione artistica senza seguire schemi prestabiliti, anzi sorprendendo con coraggio: come quando ha usato scheletri (pulendone le ossa, come in Balkan Baroque, che le valse Leone d’Oro alla Biennale d’Arte di Venezia del 1997) e allestendo persino il suo funerale.

Ha lavorato tra mille eccessi, Marina Abramović, ferendosi con coltelli, salendo a piedi nudi scale con lame (come in The Ocean View), strappandosi i capelli, mostrandosi nuda in ogni modo. Con Rhythm 0, ad esempio, si sdraiava passiva e immobile davanti a una serie di strumenti che il pubblico poteva usare a piacimento: mise seriamente a rischio la sua incolumità. Anche lei dunque ha dei momenti di fragilità e debolezza? «Ho avuto paura di morire, ma la voglia che ho di vivere ha vinto anche questa stavolta. All’inaugurazione della mostra di Londra sono arrivata con la nave Queen Mary da New York, perché al momento non posso prendere aerei. Ci ho messo una settimana, è stata una vera e propria Odissea, ma volevo esserci. Inutile negarlo: quell’esperienza estrema mi ha segnata», aggiunge l’artista serba, 77 anni, sottolineando di avere trovato utili, per affrontare la malattia, le tecniche di respirazione e di ontrollo del dolore apprese proprio durante le sue difficili performance artistiche.

 

“Five Stages of Maya Dance”

 

«La sofferenza fisica è superabile, ma non quella emotiva con cui ancora oggi lotto». E quale suggerimento può dare? «Abbracciamo la semplicità nella nostra vita. Se non lo facciamo, prima o poi saremo perduti. Il cervello non ne può più di seguire gli algoritmi di potenti computer e l’Intelligenza artificiale, non c’è competizione oltretutto in tal senso. Queste tecnologie sono state originariamente sviluppate per aiutarci ad avere più tempo per vivere nel presente. Ci siamo persi, invece, nelle nuove possibilità tecnologiche e il nostro bisogno di consumo ha fatto sì che fossimo noi ad essere consumati. Il risultato di tutto ciò è che abbiamo smarrito il nostro centro spirituale». Soluzioni? Riflessioni sul tempo e sulle prove esistenziali che l’artista ha sintetizzato in un vero e proprio metodo: «Nel corso di tutta la mia carriera ho sviluppato un cosiddetto Metodo Abramović per aiutare me stessa e gli altri a ricentrarsi e concentrarsi su ciò che è più importante, ossia vivere nel presente, a lungo e in modo sano. La mia idea di Longevity Concept è quella di riscoprire rituali dimenticati e conoscenze del passato».

 

L’Abramović Longevity Method non intende ignorare l’aspetto esteriore, ma si fonda sul riconoscimento che la vera bellezza «emana da un luogo di armonia interiore e salute». Sulla base di questa filosofia poggia un’intera gamma di prodotti, compresa una lozione per il viso che oltre agli oli essenziali e all’acido ialuronico contiene pane e vino bianco, bulbo di aglio fresco e semi d’uva. Li ha realizzati insieme con la dottoressa Nonna Brenner, luminare della medicina alternativa, sua amica di lunga data e titolare di un centro per la longevità nella cittadina austriaca di Fuschl am See, nei dintorni di Salisburgo, la stessa dove si produce la bibita rigenerante Red Bull, che coincidenza.

 

Lei, ovviamente, assicura che funzionino davvero. «Nonna Brenner è determinata a farmi vivere 110 anni. Le artiste vengono prese sul serio dopo un secolo di vita quindi, se davvero arrivo al traguardo, forse finalmente mi prenderanno sul serio», aggiunge con l’ironia sferzante che la contraddistingue: uno spirito provocatorio che ha manifestato di continuo.

 

Anche la bellezza è stata sempre una sua ossessione. Quando conobbe Paolo Canevari, «un artista estremamente attraente, più giovane di me di 17 anni», racconta a Katya Tylevich nel prezioso volume “A visual biography”, di recente pubblicato da Laurence King Publication a corredo della mostra londinese - si trasferirono da Amsterdam a New York per volere di lui che poi sposò nel 2006 dopo aver ricevuto la proposta per strada, a Mercer Street, nel cuore di Soho, fregandosene della pioggia e delle borse della spesa che aveva in mano.

 

«In quegli anni capii che per conquistare quella città e il suo competitivo mercato dell’arte, avrei dovuto curare il mio corpo», dice. Ecco, quindi, l’inizio di un training alle cinque e mezza del mattino, senza parlare per tre ore al giorno e il mantra «essere in forma per essere forti». La linea di creme, più di venti anni dopo, continua questa “magnifica ossessione” che esiste e resiste in lei, pronta a riscoprire sempre di più rituali dimenticati e conoscenze del passato associati proprio alla bellezza e al benessere. Alcuni sono convinti che si tratti di una sua nuova performance della quale, prossimamente, parlerà svelandone i risultati. «Davvero strano che un’artista che si è impegnata ad esplorare il potere e la vulnerabilità del suo corpo, sfidandone i limiti, si preoccupi di cose come rughe e macchie dell’età», ha sottolineato il quotidiano The Guardian. Vedremo. Se The Artist is Present è stata la sua nota performance nel 2010 al MoMa di New York - tre mesi nei quali rimase seduta in silenzio a un tavolo, guardando negli occhi i visitatori - adesso c’è un passato che si fa sentire più che mai. All’epoca, furono 850 mila le persone che parteciparono all’evento, rompendo ogni record di affluenza per un’artista vivente. E a un certo punto arrivò anche Ulay, il suo storico ex, compagno di molte sue avventure in giro per il mondo a bordo del loro iconico furgone Citroën, colui con cui realizzò nel 1977 la discussa quanto attraente performance Imponderabilia alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna: stavano entrambi nudi all’ingresso e i visitatori, per entrare, erano costretti a toccarli.

 

“Installation view”

 

Per dirsi addio con Ulay, scomparso nel 2020, artista anche lui e fotografo, considerato una delle figure chiave della performance art degli anni Settanta, immaginarono l’esibizione The Lovers, percorrendo a piedi i 2.500 chilometri della muraglia cinese dai capi opposti per incontrarsi a metà strada e lasciarsi per sempre.

 

Era il 1988, ma qualcosa andò storto. Si incontrarono, finalmente, nel 2010 durante la performance newyorchese, quando lui le si sedette a sorpresa davanti e le sorrise, tra la commozione generale. E un video da milioni di visualizzazioni on line.

 

«L’Arte è stata davvero una via d’uscita dalla mia casa di famiglia e, più tardi, dal mio Paese», racconta lei. «Quello che volevo era la libertà più totale». Non certo facile in una Jugoslavia postbellica e con la dittatura comunista di Tito, «tra carenza di qualunque cosa, il grigiore ovunque e due genitori diversamente assenti». Il ricordo più bello? «Stare in cucina con l’adorata nonna Milica».

 

Suo padre Vojin era interessato solo alla politica e a relazioni extraconiugali, se ne andò di casa, «ma nonostante questo, io lo avevo idealizzato». Sua madre, «che mi ha sempre dato una stanza come studio e i soldi per comprarmi una tela», grande amante e conoscitrice dell’arte (dirigeva il Museo dell’Arte e della Rivoluzione di Belgrado, ndr), aveva d’altro canto una vera e propria mania del controllo, l’ossessione per le pulizie e non permetteva alcuna libertà.

 

«Mentiva su tutto, anche sul mio compleanno. Disse che ero nata il 29 novembre, l’anniversario della Repubblica Federativa Popolare di Yugoslavia, quando i bambini ricevevano caramelle da Tito. Io non le ho mai ricevute. Come mai? Le chiesi. “Perché sei una bambina cattiva”, mi rispose. Ero nata il 30 novembre».

 

Quando la madre morì, dopo una lunga malattia, Marina scoprì cose che non le aveva mai rivelato mentre era in vita, come una rassegna stampa che aveva raccolto su di lei «ritagliando tutte le immagini in cui comparivo nuda così da poterle mostrare ai suoi amici senza doversi vergognare. È stata comunque una coraggiosa, come mio padre», precisa adesso: «Perché, nonostante stesse molto male, non prese mai antidolorifici, diceva che erano indecenti. Capisci e dai un valore alle cose solo quando le perdi».

 

Oggi la madre vive nel suo ricordo insieme a tanti altri di esperienze fatte durante una vita «che non sarà eterna, quindi ho deciso di viverla appieno». Insieme con il compagno, l’attore e regista Todd Eckert in primis, che le ha salvato la vita chiamando quel giorno l’ambulanza.

 

Sarà in dialogo con lui, il prossimo 18 giugno al Teatro Rossini di Pesaro, per conversare su come hanno realizzato l’installazione artistica The Life ospitata all'interno del Centro Arti Visive Pescheria, e di come l’opera indichi strade nuove per il futuro della performance.

«È stato lui a farmi cambiare approccio nei confronti della vita. Ho passato troppi anni da sola in stanze di hotel di tutto il mondo. Ora conta soltanto il tempo e il suo valore», aggiunge l’artista: «Ho un progetto. Quando sarò davvero vecchia, voglio rinchiudermi in un monastero in India dove nessuno potrà trovarmi e, ne sono sicura, sarà bellissimo».