A cinque anni dalla sua morte, Netflix ripropone la serie tv con Valerio Mastandrea. Un microcosmo in corsia che continua a raccontare il nostro tempo

Il 19 luglio del 2019 moriva Mattia Torre. Sono passati cinque anni, cinque stupidi anni in cui si è ripetuto a vanvera «ne usciremo migliori». E che si trattasse di una fake news pura e semplice è sotto gli occhi di tutti. Per questo lo sbarco su Netflix de “La linea verticale” andrebbe salutato come una sorta di manuale di sopravvivenza del pensiero, firmato da un’intelligenza naturale, che quella artificiale in questo caso serve a poco. 

 

La serie targata Rai Fiction e Wildside andata in onda sulla terza rete nel 2018, racconta il mondo intero ma lo rinchiude in un ospedale dove il protagonista Luigi-Valerio Mastandrea viene operato d’urgenza per un cancro al rene. 

 

Mattia Torre

 

 

Otto minuscoli episodi da venti minuti che aiutano a ricordare cosa manca davvero dopo la morte di un autore, regista, sceneggiatore come Mattia Torre. Ovvero quel miscuglio diabolico, luminoso e disincantato di empatia e paradosso, di umanità e ironia elargito con eleganza, come fosse una preziosa chiave universale in grado di aprire porte assai comuni, anche se troppo spesso sconosciute.

 

«In un ospedale, i pazienti sono tutti uguali. Non c’è classe sociale, età, censo, reddito, formazione culturale, orientamento politico o religioso che faccia la differenza. Tutti i pazienti sono dei disgraziati; che siano dirigenti o impiegati, pensionati, disoccupati o criminali, ognuno di loro, ognuno a suo modo, non cerca di distinguersi, di far valere la propria individualità. I pazienti cercano solo una cosa: la salvezza», racconta il protagonista. E questa ricerca passa attraverso un universo variegato con il suo bagaglio di sentimenti, che segue regole rigorosamente piramidali, dove ogni componente della scala vessa il suo sottoposto, dal primario fino ad arrivare all’addetto delle pulizie, ultimo anello della catena sociale, e in cui tutti, proprio tutti sfogano la rabbia con la pulsantiera dell'ascensore, il motore verticale anch’esso che ti trasporta dalla malattia alla speranza, dal reparto alla sala operatoria. E alla fine evapora la differenza, mentre rimane una comunità di individui che lottano allo stesso modo per restarci in questo straccio di mondo a disposizione, aggrappati alla vita, in un racconto doloroso e irresistibile, capace di scatenare risate alle lacrime subito prima di passare alle lacrime vere. Un inno alla sanità pubblica di cui ormai sembra importare a pochi, una radiografia puntuale di uno strano Paese che sulla contraddizione ha costruito la sua storia. 

 

E un ricordo di una scrittura magica e gentile, in grado di ridurre in briciole di meraviglia anche i funerali: «Non devi quasi più avere voglia di vivere dopo un funerale veramente riuscito. Ti deve passare la voglia di stare con gli altri, la fiducia nel futuro, l’inclinazione al lavoro, l’appetito». Insomma no, non ne siamo usciti migliori. Ma almeno proviamoci a vivere in asse su una linea verticale.

 

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DA GUARDARE 
La terza stagione di “Transplant” (Sky) andrebbe vista come la seconda e la prima. È la storia di Bashir, medico siriano scappato dalla guerra, che si rifugia in Canada, un Paese che in fatto di accoglienza non è propriamente illuminato. E alla fine la tragedia del protagonista è più forte di qualsiasi diagnosi.

 

MA ANCHE NO
È assurdo che l’Italia non si paralizzi durante Sanremo. Da cui l’ira funesta dell’ad Roberto Sergio contro la Lega Calcio che ha messo in sovrapposizione le partite per i quarti di finale della Coppa Italia con il Festival nella settimana dal 4 al 6 febbraio 2025. Perché lo sanno tutti, o canti o segni.