Sagome di donne e uomini privi di volti e piedi. Per le sue opere l’artista londinese si ispira all’antico Egitto. Ora in mostra al Portrait Milano. "È così che mille e più diversità finiscono con l’accomunarsi e accomunarci, diventando quasi un tutt’uno"

C’è un posto a Milano dove la frenesia esterna lascia spazio a una tranquillità e a un benessere d’altri tempi, che si confrontano e si mescolano con un presente che dà importanza al nuovo. Un posto dove «la cultura del passo placa i tormenti dell’effimero», come ha scritto Régis Debray nel saggio “Elogio delle frontiere” (Add editore). Entrando dal numero 11 di corso Venezia (o da via Sant’Andrea), capirete perché. Dopo un arco e un vicolo, una porta a vetri che si apre a sorpresa sulla piazza del Quadrilatero che accoglie e incanta. Siamo al Portrait Milano, gioiello della Lungarno Collection della famiglia Ferragamo, che dopo Roma e Firenze ha deciso di trasformare un ex seminario arcivescovile del 1565 in un hotel, divenuto da due anni una vera e propria destinazione nel cuore della città grazie all’architetto Michele De Lucchi dello studio AMDL Circle e a Michele Bonan. La piazza diventa così un invito sempre aperto al pubblico, come nelle antiche agorà del mondo classico, offrendo incontri, aggregazione e socialità.

 

È in quel contesto che Julian Opie (1958) ha deciso di intervenire, tra la corte interna e il portale barocco di Francesco Maria Richini. L’artista londinese è conosciuto a livello internazionale per le sue figure definite, ma senza volto e senza piedi. «Mi ispiro al quotidiano senza dimenticare l’Egitto e il modo in cui gli egiziani rappresentavano alcune figure, in cui ognuno, volendo, può provare a riconoscersi», spiega durante il nostro incontro: «Senza volto e senza colore, non si capisce la razza e l’età di quelle figure ed è così che mille e più diversità finiscono con l’accomunarsi e accomunarci, diventando quasi un tutt’uno. Le sagome sono perfette, l’assenza di soggetti fa sì che ognuno vi si possa riconoscere». I suoi protagonisti gli “eroi di oggi”, come li definisce lui: uomini e donne comuni scelti per strada, colti nella loro spontaneità e ritratti nell’attraversamento cittadino mentre compiono gesti abituali. «Mi piace viaggiare e passare diverso tempo in giro per il mondo con mia moglie – aggiunge – e durante questi spostamenti mi fermo e osservo. Guardo la gente passeggiare per strada, così uguale, così diversa: uomini, donne e bambini, uomini con cani al guinzaglio, con borse e altri accessori. Ognuno è concentrato nel suo presente e nel suo obiettivo da raggiungere. In una città enorme, quel flusso colorato mi attrae e sento il bisogno di disegnare e riportare su carta quelle che poi diventeranno le mie sculture».

 

“Portrait – 2024” di Julian Opiea, allestita al Portrait Milano

 

All’interno della piazza del Portrait milanese ha deciso di posizionarne otto e il risultato è “Walking in Milan”, una mostra statica ma in movimento a cura di Valentina Ciarallo, visitabile fino al 27 agosto. Quelle figure, imponenti e tridimensionali, sono tutte ritratte di profilo mentre camminano, connotate da un’estetica minimale che caratterizza sempre i suoi lavori, riconoscibile per l’uso di contorni netti e colori contrastanti. L’artista del camminare lascia così il segno anche a Milano dopo il Dentsu Building di Tokyo, la Dublin Vity Gallery, la Seoul Square, Melbourne, l’Israel Museum di Gerusalemme, il giapponese Takamatsu City Museum of Art e moltissimi altri. «Camminare è un gesto quotidiano e semplice che va oltre l’esercizio fisico e che tocca anche la nostra sfera spirituale», precisa. «Calma la mente e consente di contemplare il mondo da un’altra prospettiva. È la forma più naturale e comune di movimento umano che ci fa distinguere dagli animali. Il passo, poi, è rivelatore di come siamo quanto la nostra calligrafia o la nostra voce. Le mie “walking figures” rispecchiano a loro volta i passanti e allo stesso tempo si integrano tra loro diventando i simboli di una realtà quotidiana». Nelle intenzioni della curatrice, quelle figure speciali catturano la luce che illumina il grande chiostro incorniciato dal doppio loggiato di colonne, integrandosi con l’architettura che le circonda alternandone la stessa percezione. «Il camminare del titolo sta ad indicare proprio questo», afferma la curatrice. «Il mio è un voler usare il movimento per dare ancora più senso al reale», continua l’artista. «Le statue sembrano statiche ma in realtà non lo sono, proprio come noi». Si intitolano “Red trousers”, “Blue cigarette”, “Purple Bag”, “Yellow phone”, “Turquoise hair”, “Black shorts”, “Red phone” e “Black hair”. Camminano tra il pubblico e per il pubblico, sono grasse e magre, vestite eleganti ma anche sportive, possono portare una shopper o un cappellino da baseball come nulla seguendo un’andatura che rivela senza aggiungere troppo. Sono come l’iconografia statuaria classica con i personaggi collocati su piedistalli al centro delle piazze cittadine quali simboli di bellezza e di potere. Otto moderne figure che reinterpretano il concetto di scultura antica come un nuovo canone di auto rappresentazione dando così ragione a Salvatore Settis secondo cui «ogni epoca, per trovare identità e forza, ha inventato un’idea diversa dal classico, ed è così che il classico riguarda sempre non solo il passato, ma il presente e una visione di futuro».