Il Premio Nobel per la Letteratura 2023 si racconta: “La cosa che mi interessa di più? Scrivere di ciò che non conosco”

Volumi monumentali e versi distillati. Trilogie superbe o poco più che racconti. Ma che si tratti di romanzi o di lavori per il teatro Jon Fosse, il norvegese che si è aggiudicato il Premio Nobel per la Letteratura 2023, ha un modo solo di concepire la scrittura: mettersi all’ascolto. E registrare la voce che affiora nel silenzio. Trascrivere: quasi pregare.

 

“Melancholia I e II”, “Settologia”, “Un bagliore” (tutti pubblicati da La nave di Teseo), ma anche la raccolta poetica “Ascolterò gli angeli arrivare” (Crocetti Editore), di questo raccontano: dello sforzo di accettare la solitudine inevitabile dell’uomo, spalle al muro con i suoi dubbi, le paure, le esitazioni; della costante ricerca di Dio; dei confini sfumati tra vita e morte, tra sogno e realtà; di quello che ci rende ciò che siamo e non altro: come nel romanzo “L’altro nome”,  dove i due protagonisti, un anziano pittore rimasto vedovo e un artista consumato dall’alcol sono in fondo due versioni della stessa persona. O come nel libro “Mattino e sera”, dove un bambino viene al mondo, si chiamerà Johannes, sarà un pescatore. E, nello stesso tempo, un uomo muore: era un pescatore di nome Johannes.

 

Fosse, lei è cresciuto a Strandebarm, nel fiordo dell’Hardanger. “Angelo con acqua negli occhi” si intitola una sua raccolta di poesie. La sua scrittura ci arriva come un’onda, come se fossimo sempre vicino al mare. Ma è un mare con le montagne intorno il suo, con i ghiacciai sullo sfondo e isole intorno. Quanto incide la geografia sulla sua scrittura? Oppure, per il suo modo di concepire la letteratura, ogni vero scrittore ha una voce interiore che parla, e che prescinde dai luoghi?
«Indubbiamente è diverso crescere in un posto fatto di silenzi, quieto e tranquillo, di gente che parla poco, come quello da cui provengo io rispetto a un posto come questo in cui ci troviamo (Taormina, Ndr.), così carico di luci, di colori, di gente. È anche vero però che ogni scrittore ha la sua personalissima voce. E quella affiora, inevitabile».

 

Rispetto alla vita che conduceva prima, il Nobel la pone di continuo sotto i riflettori. Ora di lei sappiamo moltissimo: che da bambino è cresciuto in una fattoria e che oggi vive nel parco reale di Oslo. Che è stato un pittore e anche un chitarrista rock. Che ha sofferto di una certa malinconia e ha usato l’alcol come medicina. Che a un certo punto della sua vita si è avvicinato ai quaccheri; che ha compiuto un lungo percorso spirituale nel cattolicesimo. Come vive questa improvvisa popolarità?
«C’è davvero una grandissima differenza tra l’atto di scrivere e l’essere diventato un personaggio pubblico. Io, di solito, me ne sto alla larga da eventi pubblici, amo vivere nella mia casa con la mia famiglia, raramente vado a teatro, trascorro le vacanze in un paesino dell’Austria dove ho scritto molti miei libri. Agli eventi mondani preferisco decisamente le giornate di scrittura, anche perché ho bisogno di grandissima concentrazione: se la perdo, per ritrovare l’universo in cui ero immerso impiego moltissimo tempo. Per questa ragione conduco una vita che la maggior parte delle persone potrebbe definire molto noiosa. Per tanti anni, quando mi occupavo soprattutto di produzioni teatrali, ho viaggiato di continuo. A un certo punto ho detto basta: e per quindici anni non mi sono mosso più, dedicandomi solo alla scrittura. Poi mi hanno dato il Nobel e hanno completamente distrutto la pace e la tranquillità di cui godevo».

 

Concentrazione. E silenzio. Per un viaggio che all’inizio le è ignoto. Un viaggio di sole parole, senza neanche un punto, come se ascoltasse una voce, la riportasse, e facesse anche in fretta per paura di dimenticare qualcosa. In una poesia contenuta in una raccolta del 1992, intitolata “Cane e angelo”, scrive: «Tu non racconti storie, sono soltanto piccoli scorci concordati di un insieme troppo luminoso». E una volta ha detto: «Devi sentirti al sicuro, quando cominci a scrivere. Se ti senti fragile, metterti a scrivere può essere un azzardo».  Ci spiega meglio?
«Ci sono stati periodi nella mia vita nei quali mi sono sentito davvero molto giù e allora ho cessato di scrivere per un po’, perché per me scrivere significa affrontare un grandissimo viaggio nell’inconscio con tutto quello che conosco. La cosa che mi interessa di più e è proprio questa: scrivere di cose che non conosco. Non sarebbe un percorso così bello e profondo se io conoscessi già gli argomenti della mia scrittura. Perché per me scrivere è qualcosa che succede senza il mio apporto: la scrittura accade da sola, senza alcuna interferenza da parte mia. Se dovessi usare un’immagine per descriverla direi soltanto: ascolto».

 

I suoi personaggi sono sempre dannatamente soli. Fanno per lo più mestieri semplici. Hanno nomi che si ripetono, o non ce li hanno affatto. Sono spesso colti nell’atto di aspettare: aspettano che qualcosa accada, che qualcuno venga in loro aiuto, che un fantasma si accorga di loro. Siamo tutti in attesa, ma di cosa esattamente?
«Cosa aspettiamo. Siamo tutti qui e sappiamo che non resteremo per sempre. Siamo cascati dentro questo mondo e non sappiamo perché. Vi rimarremo 60-70 anni, se siamo fortunati una ottantina d’anni, poi spariremo dalla circolazione. Ecco cosa aspettiamo tutti: di sparire».

 

«Fosse è capace di raccontare l’indicibile», ha detto di lei l’Accademia di Svezia: le piace questa espressione? Si riconosce nella capacità di dare voce all’incomunicabile, come i grandi artisti e gli uomini di fede?
«Capisco perfettamente a cosa allude. E sì, le dico che se penso alla mia scrittura vedo una pagina scritta, da leggere, ma una pagina che contiene anche altro: come se contenesse una lingua dei segni, che ti indica una serie di questioni che vanno oltre ciò che è scritto nero su bianco. Ed è come se la pagina ti fornisse degli indizi, un’altra lingua, capace di spiegarti che cosa stai attendendo, che cosa puoi sognare. Per sfuggire alla solitudine, e a questa attesa, la maggior parte degli uomini e delle donne si rivolge all’amore. O a qualcosa che somigli all’amore».

 

Scrive in nynorsk, una lingua utilizzata solo dal 10 per cento della popolazione norvegese. “È questa lingua che costituisce da sempre la mia casa nel mondo”, ha scritto. Ci sono autori che trovano la loro casa in una lingua d’elezione diversa da quella d’origine. C’è forse anche un valore politico in questa scelta: tutelare una lingua minoritaria, probabilmente sotto minaccia?
«Sì, naturalmente c’è anche questa dimensione. Ma prima di tutto il nynorsk è la lingua con la quale sono cresciuto, quella che ho imparato da piccolo. Solo a una certa età mi sono reso conto che effettivamente non era parlata da così tante persone, ed è stato uno shock. Però va anche detto che le lingue scandinave sono tutte reciprocamente comprensibili: uno svedese può tranquillamente leggere e comprendere il norvegese».

 

Scrive di narrativa, di drammaturgia. Ma ha detto che la forma fondamentale rimane soltanto la poesia. Perché?
«È una cosa che ha a che fare con il ritmo. Amo la musica sin da bambino. Ne ho sempre ascoltata moltissima. Suonavo la chitarra elettrica, la chitarra classica, e intanto ascoltavo tantissima musica. A un certo momento, e non ho capito neanche io perché, non ho più né suonato né ascoltato musica. Contemporaneamente ho iniziato a scrivere e di fatto la scrittura è andata a sostituire la musica. Per me il ritmo è una cosa cruciale, non è facile da spiegare, il ritmo bisogna sentirlo, percepirlo. In una bella poesia c’è il ritmo preciso che deve esserci. E la stessa cosa accade in una produzione teatrale. Ma non sono io a immetterlo forzatamente. Quando scrivo, il contenuto diventa per me una specie di spazio più ampio dove trovo una forma che si fonde nel testo. Nietzsche ha detto che ciò che è la forma per l’artista equivale al contenuto per il lettore».

 

Dunque, quando scrive non sa in partenza neanche che forma avrà il risultato? Anche questo è un viaggio nell’ignoto?
«Non so risponderle con chiarezza. Scrivo da oltre 40 anni, ho iniziato prestissimo, e la cosa che ancora mi affascina della scrittura è il processo, l’atto creativo, il viaggio dentro qualcosa che non conosco. Quando si crea in partenza a una forma, e si lavora su essa, è come lavorare a qualcosa dove tutto deve combaciare per essere giusto. Questo può succedere con un lavoro teatrale. Ma quando scrivi un romanzo, anche il semplice cambiare una virgola ti costringe a compiere altre azioni: se cambi una virgola a pagina 3, ad esempio, poi dovrai lavorare alla pagina 21 e alla pagina 30, in modo che tutto torni a essere giusto. Sto dicendo che scrivere ha a che vedere con la precisione, proprio come succede con la musica. Mi sono dato al bere per un certo periodo della mia vita, e questo mi rendeva impossibile scrivere bene, perché è impossibile farlo quando bevi troppo, ma anche quando bevi troppo poco. Perché il bicchiere ti toglie la precisione, e hai la sensazione di diventare troppo sentimentale».

 

Un libro insomma è una cartografia misteriosa. Che va ben al di là della vita.
«Sì, e spero che, in mezzo alla solitudine di tutti, in mezzo all’oscurità, offra una forma di riconciliazione: sia una luce dentro le tenebre. Scrivere romanzi è un dono che ho ricevuto, che viene da non so dove, ma di certo da molto lontano».

 

Scrivere è un dono. Vincere un Nobel una responsabilità per la letteratura ma anche per la società. Ha qualche progetto di investimento?
«No, nella mia vita non ho mai pianificato qualcosa, tutto è semplicemente accaduto. Ho scritto il mio primo libro a 20 anni, poi i primi lavori teatrali. Piano piano questi scritti sono andati in giro per il mondo e hanno ricevuto grande attenzione. Però se c’è una cosa che so con certezza, e lo dico anche con un po’ di fastidio, è che non sono riuscito a esercitare alcun controllo sul mio lavoro. E questo, tutto sommato, mi fa nutrire una speranza: che la scrittura faccia capire che ci sia qualcosa che va al di là della vita stessa, qualcosa entro cui ci si possa ritrovare, ascoltare. E pregare».