Intorno alla sua morte ha costruito un thriller che è anche il ritratto di un'epoca. Eppure della diva parla malissimo. Ma in fondo il grande maestro del noir non parla bene nemmeno di se stesso: come si vede in questa lunga, sincera, provocatoria intervista

Agosto 1962, è una notte calda quella in cui viene trovato il corpo senza vita dell’attrice più discussa degli Stati Uniti. Marilyn Monroe, una vita scapestrata ed eccezionale, muore di overdose e nelle stesse ore la polizia di Los Angeles trae in salvo una giovane attrice rapita pochi giorni prima. Il detective che si occupa del caso crede che le due storie siano collegate ed è in questo frangente che viene coinvolto Freddy Otash, l’investigatore delle celebrità, capace di muoversi nella corruzione degli anni Sessanta come nessuno. I piani alti di Washington paiono, però, aver a che fare con la morte di Monroe, e tutto dev’essere maneggiato con cura. 

 

“Gli incantatori”, nuovo libro di James Ellroy, tra gli scrittori di thriller più acclamati e discussi al mondo, è in libreria per Einaudi Stile Libero, e racconta gli Stati Uniti in uno dei suoi punti di più grande splendore, sempre, però, tenendo il proprio sguardo sulle zone d’ombra più oscure e inquietanti.

 

Ellroy, ne “Gli incantatori” i protagonisti procedono lungo la storia, lungo pure la loro stessa vita, in modo piuttosto instabile: pare che ognuno sia a un passo dalla fine.

«Non lo siamo tutti, in effetti? A un passo dalla nostra fine, intendo. Secondo me sì. Ad ogni modo, tornando al romanzo, gran parte de “Gli incantatori” ruota attorno al verso di una canzone dei Rolling Stones, “Gimme shelter”. Infatti, oltre a essere un brano davvero bello, credo descriva perfettamente gli anni Sessanta negli Stati Uniti. Contiene un verso proprio azzeccato: “It’s just a shot away” (“è solo a un tiro di distanza”, ndr). Quel che c’è, e che accade, in questo romanzo è il colpo che, d’un tratto, potrebbe far saltare tutto in aria: la droga, la promiscuità, il presidente Don Giovanni e suo fratello che andava a letto con tutto ciò che si muoveva. Ogni dettaglio di questa storia, e di quel tempo, poteva essere la scintilla definitiva».

 

In questo quadro, nel romanzo, come si inserisce Marilyn Monroe? In fondo, nella storia è presente benché non sia un personaggio vero e proprio.

«Non dobbiamo essere sentimentali su di lei: era senza classe, una donna fortunata e con poco talento. Per Robert Kennedy non era che la storia di qualche notte, nient’altro. Monroe era sempre sotto barbiturici, e ci beveva pure sopra, ma ci pensa? L’ho fatto una volta e ho avuto i postumi per una settimana intera, sono stato malissimo. Lei lo faceva ogni notte: come sia sopravvissuta tanto non lo so. Ecco, non credo ci sia qualcosa da celebrare in una persona del genere».

 

Per la cultura statunitense, però, è stata importantissima. Lo è ancora.

«Perché è una costruzione femminista, ecco tutto. La sua storia triste, drammatica, era l’esempio perfetto di ciò che gli uomini fanno alle donne. Era stata abusata da bambina, aveva avuto relazioni difficili con uomini potenti: era un simbolo, nulla di più. Non metto in dubbio che sia stata abusata quand’era piccola, ma nessuno, ancora oggi, sa chi l’abbia fatto, come sia successo, ed è comunque qualcosa che, nel tempo, è successo a tante altre donne, donne che, però, non sono diventate poi persone brutte come lei. È sempre stata vista come una vittima, ma io non credo lo fosse. La sua stessa morte è stata quasi descritta come un omicidio, ma non c’è un assassinio dietro la sua scomparsa: se usi ciò che usava lei, e in quelle quantità, è naturale rischiare di morire».

 

Come si spiega, quindi, la sua fortuna?

«È morta al momento giusto».

 

A lei proprio non piace.

«Assolutamente. C’è troppa ipocrisia dietro il suo mito, ecco. Le persone sapevano che era una mina vagante, che entrava e usciva dagli ospedali psichiatrici, che non riusciva a tenere un marito. Eppure la amano e la amavano tutti. Perché? Perché la narrazione che si era costruita addosso era davvero perfetta. Prenda il matrimonio con lo scrittore Arthur Miller, però. Lui era ebreo e lei aveva deciso di convertirsi all’ebraismo solo per fare del loro matrimonio un evento favoloso, una cosa di per sé già parecchio finta, ipocrita, ma, come non bastasse, mandava ai pazzi sia lui e sia il rabbino che doveva ufficiare la cerimonia. Era pretenziosa, capricciosa, non pensava che a sé stessa. Calpestava chiunque pur di esaudire i propri desideri».

 

Si riferisce ai suoi mariti, amanti?

«Joe Di Maggio e Arthur Miller, due tra gli uomini che ha sposato, di sicuro. E però no, non mi riferisco solo a loro. Un esempio. Nel giugno del ‘56 Monroe e Miller erano nei dintorni di Long Island e i paparazzi li seguivano dappertutto, tra questi c’era pure una donna ebrea rifugiata dalla Russia comunista. Va loro dietro, dietro Monroe e Miller, perché vorrebbe scattare qualche foto alla coppia e li segue nella propria auto. Monroe, però, insiste con Miller perché vada veloce, veloce, veloce, sempre più veloce: vuole seminarla. E quello, naturalmente, obbedisce. Alla fine, tanto stanno correndo in macchina, la donna finisce fuoristrada, perde il controllo del mezzo e muore. Incredibile: tutto perché Monroe non voleva farsi fotografare. Una donna scampata alla Russia comunista ha trovato la morte per i capricci di Marilyn Monroe».

 

 

Ellroy, parliamo ora del reale protagonista de “Gli incantatori”: Freddy Otash. Investigatore privato, vissuto davvero, è famoso per aver indagato negli anni Sessanta su tante celebrità tra cui, appunto: Marilyn Monroe, Frank Sinatra e Bette Davis. Di Otash aveva già scritto. Perché è tornato a lui?

«Lo conoscevo, e non mi piaceva. E poi lui è il mio veicolo per scrivere degli anni Sessanta, è stata una figura importante di quel periodo. Tant’è che il mio prossimo romanzo lo avrà per protagonista, di nuovo».

 

Sta già scrivendo?

«Sì, voglio scrivere una trilogia sugli anni Sessanta: la crisi dei missili di Cuba, poi i movimenti per i diritti civili, Nixon e i suoi fallimenti».

 

Otash, Monroe, i Kennedy. Lei usa persone realmente vissute per raccontare storie di finzione - lo aveva già fatto. Perché?

«Sono un grande appassionato di Storia, e lo sono sempre stato. La casa delle mia infanzia era tutta disseminata di riviste specialistiche di questo genere, io leggevo e mi scoprivo sempre molto interessato».

 

A proposito di interessi. Ne aveva altri da ragazzo?

«Amavo sniffare le mutandine delle ragazze. Era qui che voleva arrivare, no?».

 

Confesso di aver letto delle interviste in cui ne parlava.

«Mi piaceva. Mi intrufolavo nelle case delle loro famiglie, intendo delle famiglie delle ragazze che mi piacevano, entravo nelle loro stanze e, trovato il cassetto con le mutandine, le tiravo fuori e stavo lì a sniffarle».

 

Come entrava in queste case?

«Ho sempre avuto le braccia molto lunghe: le infilavo nella porticina per il cane e aprivo la porta dall’interno, riuscivo a raggiungere il pomello. Di solito capitava pure che, girando per queste case, aprissi l’armadietto dei medicinali e mi facessi qualche pillola. E di solito, sceglievo la casa in cui entrare in base a quale fosse libera quel pomeriggio: chiamavo e se non rispondeva nessuno al telefono ci andavo. Preferivo le ragazze ricche, mi piacevano».

 

Quanti anni aveva?

«Circa diciotto».

 

Cos’era a interessarla? La loro vita intima?

«Non la renda romantica, mi interessava solo il sesso. Volevo il sesso e i soldi: in quel periodo, sinceramente, era difficile che pensassi ad altro. Desideravo anche una vita di famiglia, in effetti. Una vita di quelle che avevano tanti ragazzi attorno a me. E non volevo essere povero. Volevo più di quel che avevo, ecco tutto. E chi non vuole più di ciò che ha? Credo sia una spinta umana».

 

Era un segreto?

«Sì. Dobbiamo averli, dei segreti».

 

Crede sia importante avere una vita che gli altri ignorano?

«Una lezione che ho imparato tardi nella vita è che tenere la bocca chiusa è sempre, sempre la soluzione migliore. Da più giovane ho rivelato tantissimo della mia vita e, per certi versi, me ne sono pentito. Soprattutto, però, sono stanco di farlo. Sia perché raccontarsi significa dare l’idea agli altri di poter mettere bocca nelle tue decisioni, sia perché non vale proprio la pena farlo. Per carità, oggi conduco una vita parecchio diversa da quella di un tempo, vado in chiesa, prego e sono bene o male sposato, però sì: una vita solo nostra dobbiamo averla».

 

In che senso è bene o male sposato?

«Io e Helen ci siamo sposati due volte e abbiamo divorziato due volte, oggi stiamo assieme, ma non siamo sposati - troppa fatica».

 

Perché due matrimoni e due divorzi?

«Ah, la vita».

 

Oggi però state assieme.

«Sì, ma non viviamo assieme: abbiamo due appartamenti nella stessa palazzina, lei a un piano e io a quello superiore. Mi creda: la monogamia è gestibile, il problema è la convivenza. È impossibile. Un inferno. Così viviamo molto bene, invece».

 

Tornando al romanzo. Sesso e potere. Gira tutto attorno a loro?

«Ne “Gli incantatori sì”. E sui segreti, per restare su quel che ci siamo detti sulla vita intima di ciascuno».

 

Per lei?

«In alcune fasi della mia vita sì».

 

So che per scrivere non usa il computer, ma la penna. È vero?

«Certo che è vero. Non lo possiedo neanche, un computer. Non saprei accenderlo, ma comunque non mi interesserebbe utilizzarlo. Le dirò, mi serve per una cosa e basta: comprare le camicie. Amo le mie camicie e le compro spesso online. Così, quando ne voglio altre, chiedo a Helen di comprarle per me: ci sediamo vicini di fronte al computer, io le scelgo guardando lo schermo e lei le compra».

 

Perché questa avversione per la tecnologia?

«I computer rendono tutto troppo semplice, e a me le sfide piacciono. E poi sono una grande distrazione, e a me piace avere la testa su una cosa sola».

 

Si ossessiona facilmente?

«Amo ossessionarmi».