Intervista
Don Winslow: «Vengo minacciato tutti i giorni dai sostenitori di Donald Trump. Che si fottano»
Il suo nuovo romanzo, forse l’ultimo. La scrittura. La politica sempre più radicalizzata. Dialogo a 360 gradi con il grande autore
Il nuovo romanzo di Don Winslow, “Città in rovine” (Harper Collins), sarà pure l’ultimo. Lo scrittore americano, infatti, tra gli autori di thriller più acclamati al mondo, vuol impiegare le sue forze per lottare contro Donald Trump, in lizza per diventare il nuovo presidente degli Stati Uniti. E questo suo libro, a sua detta, è la chiusura perfetta di una carriera lunga e di grande successo. Danny Ryan è un ex operaio e membro della mafia, divenuto ricco con certi loschi affari, e che adesso si è incaponito nell’esaudire un sogno: costruire a Las Vegas un hotel di lusso. Non ha fatto i conti con i broker della città, con l’Fbi e con il suo passato.
Don Winslow, “Città in rovine” si apre con l’implosione di un edificio, frangente nel quale il suo protagonista, Danny, si ritrova a pensare che ogni cosa ha inizio proprio con un’implosione.
«Penso sia vero, sì: spesso le cose prendono avvio a seguito di una distruzione. Ed è fisiologico, credo, è tutto parte di un ciclo in cui per costruire qualcosa di nuovo è necessario che venga distrutto quel che c’era prima».
Danny, però, parla di implosione.
«Le radici delle nostre piccole apocalissi, dei nostri cataclismi personali, molto più di frequente di quanto siamo portati a pensare affondano dentro di noi. Voglio dire: sono interne, e dipendono da fattori insiti in noi stessi. Se penso ai fallimenti della mia vita mi rendo conto che nella gran parte dei casi avevano matrici intime».
Possiamo sempre imparare qualcosa dalle nostre apocalissi o a volte il male e il dolore sono solo inutili?
«Possono essere inutili, dipende sia dalla situazione sia dall’individuo».
Se è nel terreno dell’intimità che affondano queste radici, il concime qual è?
«Spesso, il passato e la nostra incapacità di abbandonarlo, lasciarlo e andare oltre».
Lei come lo abbandona il passato? Come va oltre?
«La scrittura mi ha sempre aiutato molto, ma è sempre stata uno strumento e basta, non la soluzione. È per questo che i miei libri, mi rendo conto a posteriori, spesso respirano l’aria che ho respirato io in determinati periodi».
Nel caso di “Città in rovine”?
“Ultimando questo libro stavo affrontando il lutto per la morte di mia madre che se n’è andata durante la pandemia. Pensavo molto alla morte, alla fine che, lenta ma inesorabile, si avvicina. Sto invecchiando anch’io, sa? Alcuni miei amici sono morti, tanti dei miei eroi non ci sono più».
A proposito della morte di sua madre. È per questo che ha dato un ruolo tanto significativo alla madre di Danny, nel romanzo?
«No. La stesura di questo libro è durata trent’anni: quando l’ho iniziato, insomma, mia madre era in salute, stava benissimo. No, la madre di Danny è Afrodite, la dea della bellezza, ed è un personaggio a sé».
Il sogno di Danny, il protagonista, è costruire un hotel di lusso a Las Vegas. Cosa va cercando, realmente?
«Una forma di redenzione. Danny spesso ha fatto del male e si è sentito circondato dalla bruttezza per cui adesso vuol costruire della bellezza attorno a sé».
Desiderio e ambizione: che rapporto ha Danny con queste forze?
«Danny si è sempre sentito poco considerato, e oggi sente dentro un forte desiderio di rivalsa. Ecco, desiderio e ambizione sono intrecciati indissolubilmente in lui».
Lei, invece, che relazione ha con desiderio e ambizione?
«Molto simile. Per tantissimi anni mi sono sentito dire chi o che cosa potessi essere e chi o che cosa, invece, mi fosse precluso. Tentativi di soffocare le mie ambizioni che, nel tempo, hanno portato a un grande desiderio di rivalsa, appunto».
Chi, per anni, le ha detto cosa potesse e cosa non potesse essere?
«Da bambino, banalmente, gli adulti. Dicevo che da grande avrei voluto essere uno scrittore e tutte le volte venivo guardato con un sorriso indulgente che, nonostante fossi ancora piccolo, mi era chiaro fosse quasi canzonatorio. Una volta cresciuto, poi, a dirmi che tipo di scrittore fossi, a cercare di spingermi verso un genere che non volevo scrivere, sono stati editor ed editori».
Da bambino voleva fare lo scrittore, quindi, ma lei è stato molte cose.
«Investigatore privato, guida ai safari, fotografo, regista di teatro».
Cosa l’ha spinta a provare davvero a scrivere?
«Nel periodo in cui lavoravo come guida ai safari, avevo poco più di trent’anni, mi sono beccato la malaria. Sono stato malissimo, davvero: febbre, dissenteria, vertigini: tutto. Una mattina all’alba sedevo davanti al fuoco, aspettavo che i clienti fossero pronti per partire, e mi sono scoperto molto preoccupato - con la malaria non si scherza. Ecco, allora ho pensato: se vuoi davvero provare a scrivere questo romanzo è meglio che ti sbrighi, ché non sai mai cosa può succedere. Ho deciso, quindi, che avrei scritto cinque pagine al giorno, qualsiasi cosa fosse capitato, tre anni dopo ho finito».
A proposito del suo lavoro come investigatore che mi dice, invece?
«Ho cominciato perché vivevo a New York e non avevo soldi. Ero quello che viene definito ratto di strada, mi occupavo di spacciatori e borseggiatori però poi, pian piano, mi sono stati affidati casi sempre più grossi».
La passione per il crime, il thriller potrebbe venire da lì?
«No, c’era già, ma in quel periodo ho fatto esperienza di una parte del mondo che, dopo, avrei scritto nei miei romanzi».
Ho letto che in quel periodo viveva in hotel sempre diversi con moglie e figlio.
«Sì, per tre anni. Lavoravo a casi difficili e spesso avevano a che fare con il sistema di protezione testimoni, non sapevo quanto avrei dovuto star via per indagare, mi davano poche informazioni. “Fatti trovare in aeroporto a quest’ora, un jet privato ti porterà lì o lì”. E nient’altro. Non volevo stare lontano dalla mia famiglia, così venivano con me. È stato un bel periodo, ne abbiamo dei bei ricordi, ma cresciuto nostro figlio ci siamo stabilizzati».
Nonostante i suoi romanzi, pieni di violenza e tanto duri, e nonostante questo periodo della sua vita, lei in un’intervista si è definito un “cupcake”.
«Lo sono, sono un morbidone».
Sta pure combattendo l’ex presidente degli Stati Uniti e non è da morbidoni.
«Sono molto più duro di lui, questo è certo. Vengo minacciato tutti i giorni sia dai suoi sostenitori sia dai Proud boys, l’organizzazione di estrema destra, sui social e via posta. Che si fottano. Non ho paura, so prendermi cura di me stesso. Quando dico, infatti, di essere un “cupcake” intendo dentro, emotivamente, non fisicamente».
A proposito di Trump. Lei ha detto che “Città in rovine” sarà il suo ultimo romanzo, che vuol occuparsi solo di combattere il vostro ex presidente.
«È così. Trovo sia d’importanza fondamentale».
Crede che vincerà le prossime elezioni?
«C’è la possibilità e mi spaventa, ma penso che vinceremo noi».
Perché?
«Lo abbiamo già fatto, no? Alle scorse elezioni, intendo. Sono certo che la gente, in un momento così drammatico per il nostro Paese, sarà capace di riconoscere un uomo così indecente e farà la scelta giusta».
A proposito. Una volta ha detto che uno dei dilemmi dei suoi personaggi è il tentativo di capire come essere persone decenti in un mondo indecente.
«Non ho una risposta. Anzi credo che la risposta sia che tutto ciò che possiamo fare è tentare di essere persone decenti. Non far del male intenzionalmente e, quand’è possibile, fare del bene».
Lei lo fa? Tenta di essere una brava persona?
«Certo, ci provo ogni giorno. Si migliora con la vecchiaia, tra l’altro».
Qual è la ragione per cui spesso non ne siamo capaci, secondo lei?
«Egoismo».
Riusciremo a essere migliori, secondo lei? Intendo come società.
«Sì».
Mi sembra sicuro.
«O così o ci autodistruggeremo. Meglio essere ottimisti, quindi».