Il dilemma che in questi mesi arrovella la sinistra americana è esistenziale. Donald Trump farà più male alla democrazia se il suo nome dovesse essere escluso dalle schede elettorali o se riconquistasse la Casa Bianca? Mai, in tempi recenti, questa forma di governo era stata messa così drammaticamente in discussione. È sulla sua difesa che Joe Biden, in vista delle prossime elezioni presidenziali, ha impostato tutta la campagna elettorale. Nel solo discorso in occasione dell’ultimo anniversario dell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, il presidente ha usato la parola democrazia circa 30 volte. A temere per la tenuta dell’impianto democratico è, con lui, il 72% dei progressisti.
L’insistenza di Biden trova giustificazione nelle sempre più spericolate uscite “autoritarie” di Trump. «I giornalisti delle fake news scrivono che voglio fare il dittatore; ma hanno tagliato il mio discorso, perché ho detto di volerlo fare solo per un giorno», ha rassicurato anche recentemente dal New Hampshire il leader del movimento Maga (Make America Great Again), quasi come se il limite temporale rendesse il concetto meno problematico. Il nuovo Trump proiettato al 2024 è più rancoroso e arrabbiato, rispolvera un pacchetto retorico che catapulta gli americani agli anni Trenta: i «migranti avvelenano il sangue degli americani» e saranno rispediti a casa con la più grande operazione mai contemplata; gli oppositori politici sono «parassiti» contro cui una volta eletto potrebbe usare il sistema giudiziario. L’ex presidente preventiva anche un impeachment di Biden che paghi con la stessa moneta i democratici, che a lui l’hanno servito due volte. Tra serio e provocatorio, allude anche a una politicizzazione del Pentagono, tradizionalmente apartitico. Come «commander in chief» invoca l’immunità, nella necessità di bloccare le cause penali a suo carico e la «persecuzione giudiziaria». E in questo filone l’ex presidente – incriminato per aver incitato l’insurrezione nel tentativo di ribaltare il risultato del voto – prospetta una grazia per tutti i «patrioti» in carcere per avergli dato retta.
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«Le sue parole sono da prendere seriamente. Vuole usare la macchina dello Stato come un’arma contro i rivali, perché è ciò che fanno ovunque gli autocrati, dal Venezuela alla Turchia, dall’India alle Filippine. Trump ce lo sta dicendo apertamente. Chavez non lo ha mai detto in una campagna, né Orbán, probabilmente neppure Putin», spiega Steven Levitsky, professore ad Harvard e autore del bestseller “How Democracies Die”. Un bis potrebbe essere molto pericoloso. «Il suo primo mandato è stato una minaccia per la democrazia americana, visto che tentò violentemente di ribaltare i risultati di un’elezione. Se si insediasse nel 2025, avrebbe un’idea più precisa di come esercitare il potere. Non si affiderebbe a figure dell’establishment; le più indipendenti sono state epurate. A differenza del 2017, avrà vicino solo i fedelissimi. L’altra grande differenza è che ora il partito lo sostiene al 100%».
Di certo la nomination del partito repubblicano è quasi in tasca. Il super-favorito ha già fatto mangiare la polvere al governatore della Florida Ron DeSantis, ritiratosi dalle primarie la scorsa settimana. Sorte che attende al varco l’ultima sfidante in corsa, la moderata Nikki Haley, ex governatrice della Carolina del Sud.
Se i sondaggi generali, intanto, vedono Trump superare Biden nel probabile duello del prossimo novembre, va irrobustendosi un network nazionale di giuristi che, secondo Nbc, è già al lavoro per studiare possibili azioni legali che arginino eventuali tentativi di espandere il potere presidenziale o di minare le norme costituzionali.
L’America dem rimane con il fiato sospeso, riversando le speranze di sventare un rewind più sulla Corte Suprema che sul successo alle urne di Biden, la cui popolarità è ai minimi. I nove giudici, infatti, si riuniranno il prossimo 8 febbraio per discutere se la clausola dell’ineleggibilità di chiunque abbia partecipato a una insurrezione, teorizzata nel 14esimo emendamento della Costituzione, si applichi o meno all’ex presidente, come ha stabilito il Colorado (ma anche altri Stati come Minnesota e Maine). Il sentore diffuso è che la Corte – a maggioranza conservatrice – non volterà le spalle a Trump.
Giocando all’attacco, il tycoon ha già assicurato caos e proteste in caso contrario. Secondo lui sono i progressisti a minacciare la democrazia cercando di cancellare il suo nome dalle schede elettorali. Lo urla a ogni comizio, accusando il distopico deep state di Joe Biden e della sinistra di armare il braccio della giustizia con processi e procedimenti (inclusi i 91 capi di accusa che si trascina), alimentando la narrazione alternativa delle elezioni rubate con l’inganno nel 2020 e antagonizzando la stampa a ogni piè sospinto.
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Sull’imminente pronunciamento della Corte, tra gli esperti i pareri sono contrastanti. «In una democrazia – dice Tom Ginsburg, professore di legge all’Università di Chicago – l’esclusione funziona meglio quando i candidati non hanno chance di vittoria. Quando invece il nome è forte, essa potrebbe rafforzare il supporto e aprire una crisi costituzionale». Il giurista, noto per aver studiato i casi internazionali di esclusione di candidati, non depenna neppure la violenza politica. «Si creerebbe una classe di persone alienate e arrabbiate perché convinte di essere state private del diritto di voto – dice ancora – temo che ciò possa accadere con Trump. L’unico modo per evitare una sua presidenza è batterlo alle urne».
Secondo Ginsburg non è l’esistenza della democrazia a essere a rischio, ma la sua qualità. «L’America si fonda comunque sullo stato di diritto. In aggiunta, in un ipotetico secondo mandato avranno peso tutti i processi che gravitano intorno al leader repubblicano, molti dei quali riguardano i fedelissimi – spiega – un dittatore ha successo solo se le persone sono disposte a seguirlo perché convinte che il suo potere durerà per sempre. Una nuova amministrazione, sapendo che Trump non potrà offrire protezione una volta uscito dalla Casa Bianca e avendo visto come la giustizia stia perseguendo alcuni collaboratori della vecchia guardia, ci penserà bene prima di appoggiare azioni illegali».
Di parere diverso è un altro costituzionalista, Mark Graber, dell’Università del Maryland, che quest’anno ha pubblicato un saggio proprio sul tema: «Le democrazie funzionano quando vengono rispettate le regole. Come non si può candidare alla presidenza chi abbia meno di 35 anni, così non può farlo chi abbia partecipato a un’insurrezione. Se decidiamo di ignorarlo, stiamo dicendo ai cittadini che possono usare violenza quando non approvano i risultati elettorali, restando esponenti legittimi della nostra politica». Ma se la maggioranza degli americani volesse votare per un insurrezionalista, non sarebbe anche questa un’espressione di democrazia? Per il giurista è importante non banalizzare. «Se la maggioranza per assurdo votasse per ridurre in schiavitù la minoranza, di certo non sarebbe accettabile. La democrazia non è una persona, un voto, una sola volta. Deve contenere in sé le regole che assicurino che queste elezioni siano democratiche, ma che lo siano anche le prossime e quelle dopo ancora».