Un trafficante di rifiuti rinchiuso in un bunker per evitare vendette. Tra sogni inquietanti e ricordi di una vita malvissuta. Lo spiazzante debutto di Romano Montesarchio

La camorra versione “bad trip”. L’incubo dei rifiuti tossici come un’allucinazione tra Bosch e il marchese de Sade. Le infamie di un colletto bianco del crimine come un buco nero in cui viene risucchiato e precipita tutto il marcio del mondo, come quasi orgogliosamente ricapitola il protagonista, un Francesco Di Leva trasfigurato da occhi chiari e baffetti alla Clark Gable («Arsenico, piombo, mercurio… Io sono stato la soluzione a tutti i problemi delle regioni industriali del Nord»).

 

Altro che “Gomorra”: qui siamo piuttosto dalle parti di Sodoma ed è da questa intuizione che muove l’esordio di Romano Montesarchio, azzardato e coinvolgente, fattuale e visionario. Labbra contratte, sguardo di pietra, Silvestro (Di Leva) è un esperto in sversamenti e veleni costretto a seppellirsi in un bunker per sfuggire ai suoi stessi compagni di malaffare. Intorcinato e labirintico, a tratti più del dovuto, il racconto mescola presente e passato, allucinazione e realtà, con la libertà che può permettersi solo un autore di lunghe inchieste sul campo (“La Domitiana”, “Ritratti abusivi”, “Black Mafia”). 

 

Mentre tra i comprimari, in una struttura tripartita e vagamente freudiana, spiccano due vecchi amici del fuggiasco, un prete Super-Io che straparla di redenzione (efficacissimo Mario Pirrello). E una specie di demone omosessuale e tentatore, più Joker che Pulcinella, gestore di night e coltivatore di vizi (l’Es naturalmente), che anima la scena più inattesa e più “gore” (Roberto De Francesco, formidabile).

 

Già: perché il “Glory Hole” del titolo, per chi non lo sapesse, non ha niente a che vedere con “Il buco” di Jacques Becker e nemmeno con il film omonimo di Frammartino, per restare tra i classici della cine-claustrofobia. Ma è un dispositivo erotico, ovvero pornografico, insomma un foro attraverso cui introdurre e soddisfare membri eccitati e prepotenti. 

 

Un dispositivo reale quanto fantasmatico che nel film è anche il pozzo destinato a inghiottire (e rigurgitare) tutti i deliri, i rimorsi, i rimpianti del protagonista, ostaggio di un sistema che gli si rivolta contro per le conseguenze dell’amore. L’amore carnale e proibitissimo per una ragazza che non avrebbe mai dovuto avvicinare (una spiazzante Mariacarla Casillo). Ma che è la prima a rendere il gioco sempre più pericoloso.

 

Non tutto gira come dovrebbe, qualche dettaglio resta sfocato, oppure insistito, ma di esordi così non se ne vedono molti. E ritrovare nel ruolo del camorrista padre della ragazza Gaetano Di Vaio, produttore da poco scomparso, una delle parabole più incredibili del nostro cinema, ripaga qualsiasi imperfezione.

 

"Glory Hole" 
di Romano Montesarchio
Italia, 95’