Ho visto cose
M - Il figlio del secolo: la bellezza assoluta in un racconto dell'orrore
Il periodo più buio della nostra Storia in una serie dove tutto funziona. Dalla regia di Joe Wright alla prova di Luca Marinelli. Su Sky otto episodi da non perdere per seguire lo scorrere di quei cinque, terrificanti anni di preparazione al regime fascista, in cui la ragione scelse il sonno per generare i mostri
Quel che più resta marchiato sulla pelle alla visione di “M” è il buio. Il buio profondo che avvolge ogni singola inquadratura di questa serie atrocemente impeccabile di cui si è già detto molto e su cui molto, si spera, si dirà. Il buio causato dalla violenza bruta, squarciato da schizzi di sangue a tempo di musica, il buio di un’epoca, che dirama i suoi tragici strascichi in tempi recenti, il buio del figlio del secolo che ha stretto un popolo come uno straccio esausto, per poi spingerlo con lucida furia nel precipizio, sempre più giù, laddove la luce non passa, come il respiro.
È magico il lavoro di Joe Wright in otto episodi (Sky) tratto dal libro Antonio Scurati, che ti lascia addosso un senso di disagio fastidioso e ingombrante come solo la Storia nuda sa fare, basta guardarla, poi il giudizio viene da sé.
E tutto è fisico, carnale, bruto e impietoso. Il corpo di Mussolini indossato dall’inaudito Luca Marinelli, che suda e si contorce, coi peli ritti sul petto, i capelli a tratti, il sesso animalesco, il mento alzato, che in un continuo passaggio tra pubblico e privato sbriciola la quarta parete, e ci parla, guardando dritto in camera: «Sono come le bestie, ma coerente. Ho tradito tutti. Anche me stesso».
E in questa fisicità irrompe il suono, che assorbe il ritmo futurista di Marinetti, zang, tumb, tumb, lo mastica e lo risputa nel beat forsennato di Tom Rowlands, capace di sovrastare manganelli e olio di ricino, di vestire gli inetti, esaltando lo scorrere di quei cinque, terrificanti anni di preparazione, in cui la ragione scelse il sonno per generare i mostri.
Così la visione di quest’opera tragica in prima persona non ha nulla di dritto. Sono storte le inquadrature, enormi i primi piani, esaltati i dettagli, le bombe a mano, il fez, il trono gigantesco per un re minuscolo e non solo d’aspetto. E mentre rimbalzano le immagini di repertorio, si intravede il balcone e aleggiano le minacce più cupe («La democrazia è bellissima, ti dà un sacco di libertà, anche quella di distruggerla»), il tutto si fonde ai colori sovraesposti, le camice nere dei fascisti, le vestaglie grigie di Rachele, il garofano rosso dei socialisti, gli ombretti neri di Margherita, il beige cangiante come l’onestà di Giacomo Matteotti e la camicia di forza di Ida Dalser, bianca come la cella in cui il Duce la fece imprigionare da pazza non pazza, fino alla morte, per evitare uno scandalo non richiesto.
Alla fine, non si può che applaudire davanti a questo lucido magma, acuto come lame che squarciano il sipario espressionista di un gioco teatrale a cui l’Italia assistette silente, fino alla fine della libertà. Quando i treni arrivavano in orario.
*************
DA GUARDARE
Provateci a non commuovervi, cuori di pietra che non siete altro: il documentario “Pino Daniele – Il Tempo Resterà” (ora su Rai Play) è un viaggio in autobus firmato dal quella garanzia che è Giorgio Verdelli, che tocca le tappe e le emozioni scatenate da un uomo in qualche modo unico, a ritmo di blues.
MA ANCHE NO
Non era facile deludere così tanto. Eppure “Squid Game 2”, il ritorno della serie dei record su Netflix, è riuscito a farlo con facilità: una storia impossibile, una quantità di proiettili sparati a vanvera da persone improvvisamente diventate abili guerriere e, addirittura nessun finale, in attesa della terza stagione.