Negli ultimi cinque anni l'Europa ha dato a Roma più di 500 milioni di euro. Aiuti per migliorare il nostro sistema di controllo e d'accoglienza. Che sono stati spesi poco e male. Dai mezzi di Frontex usati per i cortei di Roma ai milioni finiti in progetti rimasti sulla carta. Ecco perché non possiamo lamentarci sempre di Bruxelles

I soldi ci sono. Fermi dal 2008. Ma a Lampedusa nel centro di primo soccorso si dorme ancora per terra. Sono disponibili soltanto 300 posti per quasi mille persone. E il padiglione incendiato due anni fa è ancora lì, fatiscente, mai rimpiazzato: solo nell’ottobre scorso al ministero dell’Interno è venuto in mente di usare i fondi europei per rimetterlo in sesto. Stessa ignavia a Bari: da tre anni giacciono nel cassetto due milioni di euro messi sul piatto dalla Ue. Dovrebbero trasformare un hotel occupato dai migranti in una struttura d’accoglienza. Ma i cantieri non sono ancora partiti. Così succede in tutta Italia. Ritardi, sprechi, soldi comunitari usati in mansioni di routine, auto pagate dall’Europa e utilizzate dai politici con scorta.

Di fronte al nuovo esodo, alla nuova “emergenza”, il governo ha attaccato Bruxelles, accusandola di averci lasciati soli: uno slogan particolarmente caro al ministro dell’Interno Angelino Alfano. La realtà però è un’altra. I soldi, l’Unione, non ha mai smesso di offrirceli: più di 500 milioni di euro in cinque anni per migliorare il nostro sistema nazionale di controllo e d’assistenza per i profughi. Il problema è che a Roma quel forziere non è stato usato nel migliore dei modi. E spesso non si è nemmeno riusciti a spendere i quattrini già stanziati. Nel “Piano nazionale sicurezza” c’è un portafoglio ancora pieno di fondi comunitari per l’“impatto migratorio”: 122 milioni di euro per rafforzare l’integrazione e contrastare l’immigrazione irregolare, divisi fra lo Stato, che ne ha messi 50, e l’Europa, che ne ha investiti 72. Da questa cassaforte, ad oggi, sono stati presi solo 30 milioni. Meno di un quarto del totale. Significa che entro il 2015 dovremo riuscire a investire i 90 che mancano. Altrimenti ci toccherà restituire tutto quanto.

MACCHINE INGOLFATE. La burocrazia europea non scherza. E fra controlli, bandi e commissioni richiede tempo. Ma mentre negli altri Paesi le amministrazioni hanno imparato a superare le procedure e concludere le opere, da noi la gestione di questi contributi continua ad alimentare un suk dove si propone molto ma si conclude poco o nulla. Lo stesso triste primato che ci vede pecore nere per la gestione dei fondi per i beni culturali o per l’occupazione si ritrova infatti anche nello spreco dei finanziamenti per l’immigrazione. In Italia anche per le pratiche più piccole da presentare all’Europa finiamo impantanati in un labirinto di enti, comitati e autorità: una montagna di carte che spesso non arriva al traguardo. L’ok definitivo per realizzare un centro di formazione per migranti a Marineo, un paese in provincia di Palermo, arriva il 19 novembre 2010. Gaudio del Sindaco: Bruxelles offre un milione e mezzo di euro, puliti. Cifre da festa grande nelle ristrettezze del patto di stabilità. Sono passati 900 giorni. E ancora si rincorrono gare, appalti, ricorsi, ritardi. Il centro? Arriverà. Chissà quando. Lo stesso accade a Bari. Nell’ottobre del 2009 un gruppo di migranti somali occupa un hotel abbandonato. Si arrangiano, ma vengono sbattuti fuori: quelle stanze sono destinate a diventare un centro d’accoglienza come si deve, con 16 camere da letto per la permanenza temporanea dei rifugiati. Sono già pronti più di due milioni di euro. «Io ci passo davanti quasi tutti i giorni, ma è chiuso, nel degrado, come sempre», commenta Azmi Jarjawi, segretario della Cgil di Bari.

Il controllo sugli interventi ammessi a ricevere il sostegno della Ue passa dal ministero dell’Interno. Sono gli uffici del Viminale a decidere chi verrà finanziato. E spesso ad occuparsi anche di mettere a punto i progetti vincenti. È successo con i cinque milioni di euro stanziati a gennaio per ristrutturare il centro per richiedenti asilo di Bari Palese. Una struttura così contestata, per il suo isolamento e per le condizioni igienico-sanitarie disastrose in cui vivono gli ospiti, che da mesi si è fatta largo l’ipotesi concreta di trasferirla altrove. E quei fondi appena stanziati? «Non ne sappiamo niente», dicono dal reparto immigrazione della prefettura di Bari: «Nulla. Non siamo stati noi a chiedere quei soldi».

A OGNUNO IL SUO. Sia il “Ferrhotel” pugliese che la scuola siciliana dovrebbero diventare, secondo i documenti ufficiali, dei “Centri polifunzionali”. La definizione racchiude uno schema che al ministero dell’Interno, a quanto pare, piace molto. Con oltre 50 milioni di euro pescati dal “Piano Sicurezza” europeo ne vorrebbe infatti costruire ben 56, sparsi fra Campania, Calabria, Puglia e Sicilia. Questa cascata di quattrini servirà a ristrutturare vecchi palazzi, immobili confiscati alle mafie, capannoni industriali in disuso, in molti casi ex Opere Pie rimaste sul groppone dei Comuni. Dal 2007 a oggi non risulta esserne stato ancora completato nemmeno uno. Cosa ci faranno, poi, in questi centri, non è del tutto chiaro: sportelli per l’assistenza legale, corsi di formazione, residenze. Ognuno si inventa quello che può: non esistono parametri oggettivi, nemmeno per la spesa. Il volume di soldi richiesti infatti non è mai proporzionale al numero di posti che verranno creati. Con due milioni di euro, per esempio, il Comune di Caltagirone realizzerà un centro d’assistenza per minori dalla capienza di 88 letti. Usando la stessa cifra la giunta di Termini Imerese ripristinerà invece l’ex misericordia di San Pietro. Che di migranti, però, ne potrà accogliere soltanto nove alla volta.

RICERCATORI D’ORO. Il moloch infernale della burocrazia non è la sola causa dei ritardi. Perché quando l’interesse c’è i fondi si sanno usare, e presto. Ne è un esempio il dipartimento del lavoro della Regione Sicilia, che è riuscito a investire subito il milione e mezzo di euro ottenuti per il progetto “Al-Khantara”, una ricerca sull’integrazione professionale dei migranti. Trecento interviste, 18 mesi di stipendi - fra gli esperti ingaggiati spicca Daniela Misuraca, sorella di Dore, deputato Pdl - per avere “450 iscritti” a un sito web che però non esiste già più. Cancellato. Anche l’Istituto nazionale di economia agraria ha ricevuto più di un milione di euro per uno studio sull’impiego degli immigrati nei campi. «Sarà una banca dati utilissima», promette Alessandra Pesce, la responsabile del progetto: «Servirà a conoscere gli spostamenti dei lavoratori stagionali». Il risultato non è ancora pronto. Bisognerà aspettare di vederlo per capire se l’analisi di ritmi e numeri dei raccoglitori di pomodori e mele aveva bisogno di tanti soldi.

Fra le organizzazioni più attive sul fronte delle ricerche c’è sicuramente Connecting People, una cooperativa che gestisce 19 Centri per immigrati in Italia, sia per richiedenti asilo, che per clandestini, come il Cie di Gradisca d’Isonzo: un appalto per il quale è indagata. In Friuli l’associazione è stata infatta accusata dai pm di associazione a delinquere e truffa ai danni dello Stato. Ed è Connecting People la capofila di una rete di associazioni che hanno scalato le graduatorie del ministero e si sono aggiudicate per ben due volte un milione e mezzo di euro per uno studio intitolato “Nautilus” sulle prospettive dei rifugiati politici in Italia. Tre milioni destinati a osservarli, mentre molti continuano a vivere in condizioni drammatiche, ai limiti dell’indecenza. SISTEMI BUCATI. I fondi per le ricerche e i centri d’accoglienza sono solo briciole rispetto alla cifre dedicate al controllo delle frontiere, il più ricco dei forzieri europei, come mostra il grafico a pagina 47. Il programma pluriennale sostenuto dall’Unione, su proposta del Viminale, è costato infatti quasi 300 milioni di euro. È la dote di Frontex, la rete di vigilanza dei confini. La parte del leone la fanno le nuove tecnologie, con risultati però non sempre entusiasmanti. Tra i progetti che il governo ha presentato a Bruxelles con il bollo di qualità per ottenere nuovi finanziamenti c’è infatti l’I-Vis, una piattaforma telematica per controllare i visti degli extracomunitari, che collega i desk della polizia di frontiera alla rete di ambasciate e consolati. Un sistema costato più di 14 milioni di euro che è stato colpito, appena avviato, da un’incursione hacker. A novembre del 2011, mentre il software era ancora in fase di “roll out”, il gruppo Par-Anoia riuscì infatti a infilarsi nel database e a pubblicare tutte le password per accedere al controllo dei visti, oltre ai dati personali di 350 agenti impegnati nel servizio di frontiera. Non proprio il massimo della sicurezza. E con i fondi per il controllo delle frontiere sono stati realizzati anche interventi milionari per i nuovi sistemi di fotosegnalazione, di raccolta e archiviazione delle impronte digitali, impianti radar e di sorveglianza visiva distribuiti a tutte le polizie. Nonostante tutto questo, per pattugliare Lampedusa è stato necessario mandare di corsa navi e aerei delle forze armate.

PADRONI DEI CIELI. Eppure una voce di spesa altrettanto rilevante riguarda l’acquisto di mezzi per mare, terra e aria. L’ultimo shopping è stato di 96 milioni di euro, in gran parte a carico delle casse europee, ed è servito a costruire una flotta nuova di zecca: tre aerei Piaggio P180, le “Ferrari dei cieli”, e cinque elicotteri Aw 139, tutti assegnati alla Polizia di Stato. Gli ultimi arrivati sono i due gioielli di Agusta Westland, consegnati a fine luglio al reparto stanziato a Pratica di Mare. Si tratta di elicotteri veloci, rapidi e dotati di strumentazioni di ultima generazione. Hanno un apparato infrarosso Flir che permette di scrutare nella notte a dieci chilometri di distanza, ingrandendo persino i dettagli di una mano. Finora però sono rimasti a Pratica di Mare, sorvegliando con i loro potenti sistemi le manifestazioni di Cobas e centri sociali: tenerli su un aeroporto periferico alle porte della Capitale esclude di fatto ogni loro possibilità di intervento nella zona calda degli sbarchi e dei naufragi.

IN AUTO CON LA UE. In cinque anni anche il parco vetture delle forze dell’ordine si è irrobustito grazie ai fondi di Bruxelles. Più di 27 milioni di euro sono stati spesi in utilitarie, fuoristrada, pullman e minibus. Tra i costi spiccano i 25 mila euro usati per l’acquisto di ciascuna delle “auto speciali” per il controllo delle coste e le 355 vetture comprate dalla polizia a oltre ventimila euro ciascuna. Sono mezzi che dovrebbero essere destinati al pattugliamento delle coste e dei porti ma secondo i sindacati di categoria è altissima la possibilità che le attrezzature siano state inghiottite dalla routine. Suv e auto pagate per la sicurezza delle frontiere sarebbero state dirottate ad altri compiti, in qualche caso assegnate addirittura al servizio scorta di alti dirigenti dello Stato e di politici, che andrebbero in giro col lampeggiante acceso e la targa virtuale della Ue.

SERBATOI VUOTI. Grazie all’emergenza migranti le nostre forze dell’ordine possono dire di aver fatto il pieno. Anche in senso letterale. Perché se a furia di finanziamenti si compra di tutto - tecnologia, macchine, elicotteri e motovedette - qualcuno alla fine il serbatoio lo dovrà pur riempire. Chi? L’Unione europea. Alla voce “coupon per l’acquisto di diesel e benzina”, la Ue ha staccato a febbraio di quest’anno un assegno da 200 mila euro per l’Italia: una goccia per le forze dell’ordine in perenne riserva.

DENARO CORRENTE. Dall’euro-portafoglio arrivano anche i sussidi necessari a tenere in piedi il nostro sistema d’accoglienza. Assistere i richiedenti asilo è un dovere dello Stato, ma i soldi sono pochi, le priorità altre, e così fra le maglie dei progetti finanziati dalla Ue non finiscono solo idee innovative o interventi straordinari ma anche richieste per il tran tran quotidiano. Ossigeno che manca alle casse di molte cooperative, onlus o associazioni che solo grazie all’aiuto dell’Europa riescono a garantire servizi eccellenti. Non sempre, ovviamente. Nel 2010, ad esempio, negli elenchi degli interventi approvati dal ministero dell’Interno, guidato allora da Roberto Maroni, e pagati con il Fondo europeo per i Rifugiati, sono finiti 400 mila euro per il “Valico di frontiera” dell’aeroporto di Fiumicino. Un servizio appaltato all’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, cooperativa d’ispirazione cattolica molto nota nella Capitale. Si tratta della stessa associazione che secondo una denuncia di Save The Children si sarebbe fatta rimborsare per mesi dalla Protezione civile cifre superiori al dovuto: per ricevere 80 euro al giorno dichiarava di aver offerto ospitalità a minori stranieri arrivati durante l’Emergenza Nord Africa, ma in realtà lasciava posto a senza fissa dimora ben più che maggiorenni. L’ufficio che gestisce l’Arciconfraternita all’aeroporto è il più antico di questo tipo in Italia: esiste dal 1998. E oggi, a volte, i migranti sono costretti «a passare la notte sui sedili d’attesa o in una piccolissima stanzetta, spoglia e priva di finestre», come hanno denunciato nel 2012 alcuni volontari. Seggioline scomode ma targate “made in Ue”

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