Aveva perso il lavoro e voleva tornare in patria per vedere il figlio appena nato. Cantava le sure del Corano per farsi coraggio. È stato ucciso a mani nude da un ragazzo italiano. Mentre gli abitanti delle periferie romane protestano per la sicurezza, un migrante è morto vittima della follia razzista

È una sera di fine estate nel quartiere di Tor Pignattara. Un giovane pakistano cammina cantando nei vicoli della Marranella. Un uomo sul balcone si infastidisce. Urla al figlio: «Ammazzalo!». Il ragazzo, 17 anni, inizia a colpire il migrante a calci e pugni. Fino a ucciderlo.
Così Muhammad Shahzad Khan è morto lo scorso settembre. A 28 anni e senza un motivo vero. È vittima di odio razziale. Dopo i fatti di Tor Sapienza, si parla molto di sicurezza, degrado e problemi “italiani”. Tuttavia, finora, l’unica vera tragedia di questi mesi ha colpito un migrante.

Solo perché cantava
«La “banalità del male” trapassa la persona senza riconoscerla come umana», scrive Ejaz Ahmad, giornalista e mediatore culturale pakistano. «È stato ucciso solo perché cantava. Recitava le sure del Corano per farsi coraggio», dice all’Espresso Ahmad.
«Negli ultimi mesi la perdita del lavoro l’aveva molto rattristato», raccontano i suoi amici. La comunità asiatica ha reagito in modo molto composto. Un corteo silenzioso e uno striscione che recitava: «Tor Pignattara non ti dimenticherà».

Ma la sua storia è già finita sotto silenzio. Per alcuni era un ubriaco, un clandestino, un senzatetto. Invece era semplicemente una vittima della crisi, come altri lavoratori italiani. Passato da un buon lavoro nel centro a un letto del centro d’accoglienza. Arrivato con i flussi del 2007, ha sempre avuto i documenti in regola. Prima impara il mestiere di cuoco in un ristorante di Prati. Poi  lavora con il cugino in un locale di Tor Pignattara. Un posto sempre meno frequentato che finisce per chiudere. Il parente si trasferisce a Londra.

Lo scorso giugno Shazhad si ritrova senza lavoro. Dal villaggio natale di Bagh Ajk, nel Kashmire, arriva la notizia: è appena nato Omar. Vuole tornare in patria per vederlo, ma non ci riuscirà. Cerca lavoro, lascia il curriculum, si rivolge ai conoscenti. Pur di mandare i soldi a casa, si adatta a vendere fiori, lui che cucinava per i ricchi clienti del centro.

Ci manchi
Il ragazzo accusato di omicidio è figlio uno dei tanti commercianti della zona. Amici e parenti hanno solidarizzato con lui. «Ci manchi», recitava uno striscione. In tutto il quartiere i negozianti italiani lamentano di essere a un passo dalla chiusura. Alcuni protestano contro i “fruttaroli” dalla pelle scura.  Altri raccolgono firme contro luoghi di culto e moschee “che proliferano”.

La tensione cresce. Ma la crisi colpisce tutti, italiani e migranti. Eppure queste zone sono nate da migrazioni iniziate cento anni fa. I primi venivano dalla provincia e avevano percorso pochi chilometri. Quelli di oggi arrivano da Cina e Bangladesh e hanno cambiato continente. Ma lo spaesamento è uguale. E non è cambiato il modo con cui vengono accolti.

«È un luogo a due facce», ci spiega Ahmad. «C’è il razzismo ignorante. Ma anche tanta solidarietà». Per esempio, le madri della scuola Pisacane, conosciuta come un esempio di multiculturalismo, hanno deciso di adottare a distanza il piccolo Omar. «Se salta questo luogo muore un modello di convivenza» dice Giusy D’Alconzo, esperta di immigrazione e diritti umani. «È uno dei posti più multietnici d’Italia». Tor Pignattara potrebbe somigliare a un quartiere londinese. Rischia di diventare un ghetto dove si muore per il colore della pelle.