Migranti, la fabbrica dei fantasmi
La burocrazia che nega i diritti
Mesi di attesa, fino a un anno. Solo per sapere se lo Stato li considera profughi o clandestini. Mentre dalle questure arrivano richieste-ostacolo. Per dissuadere dalle domande d'asilo. Abbandonando nel caos migliaia di profughi
L’Italia è un pomeriggio vuoto. Un’attesa forzata fra il “sono vivo” dello sbarco e il “chi sono” di un documento. Nel 2014 63mila migranti hanno fatto richiesta di protezione internazionale nel nostro Paese. Raccontano di essere fuggiti da guerre, dittature, persecuzioni; hanno affrontato viaggi tremendi. In tutta Italia le loro foto, insieme a un nome e un modulo che riassume i ricordi della loro sofferenza, sono nelle mani di venti “commissioni territoriali”, venti squadre di funzionari che hanno il compito di valutare le loro storie. Di decidere chi è una vittima e chi un impostore. Una missione che richiede tempo, certo. Ma troppo. Oggi gli stranieri arrivati sulle coste nel Sud che presentano domanda d’asilo si sentono rispondere: «Le faremo sapere a gennaio. Del 2016». Dovranno aspettare dodici mesi prima di capire se lo Stato italiano li considera dei profughi in fuga dall’orrore, protetti quindi da convenzioni internazionali con un permesso di soggiorno che va da uno a cinque anni. Oppure dei clandestini, irregolari da espellere.
A ottobre l’Europa fotografava nel nostro Paese oltre 37mila persone sospese in questo limbo. Le commissioni sono ingolfate dall’esplosione di richieste, aumentate del 144 per cento rispetto al 2013 sull’onda di Mare Nostrum. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha promesso che avrebbe aumentato gli uffici per dare risposte in tempi certi. Ma finora nulla è cambiato. E mentre la macchina della burocrazia s’inceppa, quella dell’accoglienza produce fantasmi. Da una parte rifugiati a cui viene procrastinato il riconoscimento di un diritto fondamentale; dall’altra disperati che si aggrappano ai mesi d’attesa come unica strada per provare comunque a raggiungere un permesso.
Ai richiedenti asilo infatti va garantita assistenza, chiunque essi siano, da ovunque arrivino, almeno fino al verdetto della commissione. Vanno ascoltati. Possibilmente integrati. Anche se raramente accade. «Le lungaggini burocratiche li disorientano profondamente», commenta Livio Neri, un avvocato che segue molti stranieri a Milano: «Li fanno sentire in trappola». Un processo kafkiano di cui i migranti non comprendono tempi, procedure, priorità.
Così chi può, chi sa, chi ha la fortuna di non essere identificato dalla polizia allo sbarco, scappa prima di entrare in queste sabbie mobili. Scompare come hanno fatto oltre 100mila siriani, eritrei e somali solo lo scorso anno. Fuggiti verso Paesi dove avranno risposte rapide e maggiori chance di costruire un futuro: nel 2014 la Germania ha ricevuto 202mila domande d’asilo, tre volte tanto noi. «La fuga di siriani ed eritrei è avvenuta sotto gli occhi di tutte le istituzioni. Un accordo informale passato sotto silenzio», commenta Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas: «Questo ha sicuramente alleggerito il sistema d’accoglienza italiano. Ma ha anche lasciato arricchire, alla luce del sole, una rete di mafiosi e trafficanti. Ha costretto i profughi di guerra a pagare gli strozzini. Mentre noi guardavamo dall’altra parte». Un sistema criminogeno, che si è ingrandito senza ostacoli finché i Paesi della Ue non hanno alzato la voce: Austria, Germania, Francia, hanno contestato “decine di migliaia di irregolari”. E in autunno una circolare del ministero ha ribadito alle prefetture che bisogna rispettare le regole: identificare, controllare, accogliere.
Sul campo però continuano forme «di tacita dissuasione» per ostacolare chi deve presentare richiesta d’asilo, come denunciano i volontari di un’associazione milanese, Naga: ostacoli «che passano attraverso una burocrazia artatamente contorta». Per “verbalizzare” le domande, ad esempio, la questura di Milano chiede di presentare una “dichiarazione di ospitalità”. Ovvero obbliga a trovare qualcuno che dica «questa persona vive a casa mia»: una pretesa sorprendente nei confronti di chi è appena arrivato dall’altra parte del Mediterraneo. «È una prassi consolidata. Ma illegittima», sostiene l’avvocato Neri: «Alcune associazioni, come la Casa della Carità, offrono aiuto gratis per superare queste barriere. Molti non lo sanno però e si rivolgono a persone che si fanno pagare per siglare dichiarazioni fittizie».
Sono gli stessi funzionari a riconoscere che il “certificato casa” serve per allontanare dagli sportelli i “meno motivati” a domandare asilo. Nel 2011 Giuseppe De Angelis, allora direttore dell’ufficio immigrazione della questura di Milano, l’ha messo nero su bianco: l’obiettivo è «evitare l’uso strumentale del diritto d’asilo e la permanenza sul territorio in assenza dei requisiti necessari». Una procedura che poi è stata adottata anche a Bergamo e a Roma, dove i gesuiti del Centro Astalli, pur di dare una mano agli stranieri, sono arrivati a firmare 10mila di queste dichiarazioni d’ospitalità, imposte dalla questura.
La lentezza della burocrazia non contribuisce nemmeno a colmare l’altra falla del sistema: l’integrazione. Ossia lezioni di italiano, corsi professionali, consulenze nelle pratiche legali e altre iniziative che contribuiscano a introdurre gli stranieri nella nostra società. Spesso non è così: i centri temporanei raramente garantiscono sostegni efficaci, isolando gli ospiti nel vuoto. E anche gli operatori più motivati, le strutture più serie (che sono tante e svolgono un lavoro straordinario) da sole non riescono a far tutto e bene.
«Bisognerebbe attivare servizi per l’integrazione adeguati, che vadano oltre l’accoglienza immediata e diffusi in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale», spiega Forti della Caritas. Oggi non esistono. Lo sa bene chi un permesso l’ha ricevuto - magari da anni - ma vive lo stesso arrangiandosi, dormendo per strada o dentro case occupate. Rifugiati, profughi, vittime di tortura, scappati dai bombardamenti per finire nella fame in Italia. Sono tremila solo a Roma, settemila in Puglia. Hanno le carte in regola, sono stati ospitati per mesi a carico dello Stato, senza l’opportunità di un futuro diverso. Anche loro sono rimasti fantasmi.