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Raggiungere Mohamed è come cercare un volo chiamando direttamente Luca Cordero di Montezemolo, il presidente, il grande capo. E non è l’unica sorpresa. L’altra dimostrazione di impunità è che il numero di Mohamed da anni è sempre uguale. Lo stesso numero di telefonino con il «357» finale che già nel 2013 appare nella denuncia presentata alla Procura di Palermo, dai medici siriani sopravvissuti al naufragio dell’11 ottobre di quell’anno: almeno sessanta bambini annegati, 268 morti complessivi sui 480 profughi che avevano pagato la traversata al boss dei boss, otto giorni dopo l’altra tragedia di eritrei a Lampedusa.
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E con un simile curriculum, la strage dei bimbi di Aleppo sul groppone e le indagini ancora in corso, eccolo qua. Nemmeno la precauzione di cambiare scheda telefonica, come farebbe qualunque criminale. Sempre la stessa utenza di Libya-Mobile a 35 centesimi al minuto. E anche in questo, l’agenzia dei barconi batte in convenienza le tariffe dei call center nostrani. «Salam, pace a te, chi parla?», chiede tranquillo Mohamed.
Quando il Vaticano riceve la proposta, i morti in mare dall’inizio del 2014 sono già tremila. «Vi è stata dedicata attenzione ancora recentemente», risponde in gennaio a “l’Espresso” padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede: «Del resto i problemi dei migranti e dei profughi stanno a cuore al papa. Purtroppo la conclusione è che non si vede possibile procedere per la via suggerita». Forse, con altri milleduecento annegati in sei giorni e una guerra alle porte, l’appello merita ancora attenzione.
Mohamed, il boss dei boss di Tripoli, intanto incassa. Al telefono dice che ci sono barche in partenza mercoledì 22 aprile, giovedì 23 e venerdì 24. Da Tripoli alla città di Al Zuwara, non lontano dal confine tunisino, è ben conosciuto. Un po’ perché gli manca un braccio, portato via da una bomba. Un po’ perché lui e suo fratello Khaled hanno organizzato il viaggio della strage dell’11 ottobre 2013. Una notte d’inferno. Le raffiche di mitra sparate da una motovedetta libica, forse perché Mohamed non ha pagato la tangente. I profughi feriti, lo scafo perforato dai proiettili. Il rimpallo di responsabilità tra i soccorsi italiani e maltesi, sette ore di inutile attesa. Il peschereccio pieno di bambini si rovescia alle cinque della sera. Quando alcuni papà sopravvissuti richiamano Mohamed e Khaled, la loro risposta è bestiale: «Gli asini siete voi, che avete messo i vostri bimbi sulla barca».
Adesso Mohamed risponde con calma. Non sa che sta parlando con un’interprete che in arabo finge di chiedere sette posti per l’Italia. Sono le 17.24 di lunedì 20 aprile. Stesso numero. Chiamo da Milano, sei Mohamed? Stessa voce del 2013: «Sì, prego». Come stai? «Grazie a Dio sto bene», replica lui: «Cosa vuoi?». Abbiamo persone a Tripoli che vogliono venire in Italia e vogliono sapere se ci sono navi che partono. Mohamed: «Vogliono partire?». Sì, vogliono partire. «Non ci sono problemi, mama», dice sentendo la voce femminile: «Di’ loro di chiamarmi. Poi spiego loro le cose da fare». Sono tre eritrei e quattro siriani. «Sette», riassume lui: «Dove si trovano?». Voglio pagare io per i ragazzi. «Cosa hai detto?». C’è la possibilità di mandare soldi? «Adesso non si parla di pagare. Ma va bene. Questi ragazzi se sono pronti e tu mandi i soldi, se sono pronti io ci sono. Possono partire. Che mi chiamino. Tutto andrà bene». C’è una barca domani, dopodomani o fino a venerdì? «Sì, non ci sono problemi, ci sono». Dirò loro di chiamarti, poi ti chiamo anch’io. «Mashi», va bene, ripete Mohamed: «Digli di chiamarmi, le barche ci sono».