A 40 anni dalla legge, "l'Espresso" è andato a vedere cosa resta dei servizi per le donne. Fra ginecologi che mancano, centri pro-vita sostenuti dai fondi pubblici, ragazze straniere che non sanno a chi rivolgersi e nuovi bisogni. Tra molta libertà. E altrettanti passi indietro

È giovedì mattina. «Buongiorno, il consultorio familiare di Larino?». «Sì, dica». «Una mia amica deve fare un'interruzione volontaria di gravidanza. Siamo molto preoccupate». «Eh ma deve andare a Termoli». «Abbiamo bisogno del certificato medico». «No, no, noi non lo facciamo il certificato, non abbiamo il ginecologo. Ma, insomma, se vuole passare qui, possiamo invitare la signora a riflettere. A cambiare idea». No, grazie.

«Buongiorno è il consultorio di Brescia?». «Il consultorio Cidaf, sì». «Una mia amica ha bisogno di un'interruzione volontaria di gravidanza». «Noi non le facciamo queste cose». «Scusi?». «Non le facciamo. A parte che siamo in chiusura, ma soprattutto abbiamo l'obiezione di coscienza, per cui si rivolga ad altri, si rivolga al pubblico». «Ma voi siete un consultorio accreditato, vi ho trovati indicati sul sito web del ministero della Salute». «Ripeto: siccome è una scelta, i consultori Cidaf sono cattolici, e fanno l'obiezione di coscienza. Ne trova parecchi altri». «Mi può dare almeno un numero?». «Lo cerchi su Internet». E appende.

No, non è andata dappertutto così. Una ginecologa di Salò è disponibilissima, attenta, dà indicazioni chiare al telefono e si rende subito raggiungibile per un appuntamento. A Conegliano Veneto lo stesso: un'operatrice aiuta con attenzione e senza pregiudizi. A Jesi? Aprono solo dopo mezzogiorno.
L'ingresso del consultorio privato accreditato a Milano

A Milano entriamo in un consultorio cattolico accreditato dalla Regione. Sede: dentro una chiesa, a due passi da uno dei più noti ospedali della città per reparto di maternità. Al primo piano, due donne. Chiediamo indicazione per la pillola dei cinque giorni dopo. Nessuna reazione ostile, anzi: sorridenti indicano un medico che in un certo ospedale dà EllaOne senza problemi. In farmacia? Non si sa mai se accettano di fornirla senza opporsi.

Questa è l'Italia che festeggia i 40 anni della legge sui consultori familiari. Anniversario in sordina, passato sotto silenzio il 29 luglio a fronte di un'applicazione reale piena di vuoti. A cominciare dalla presenza sul territorio: ne mancano circa mille rispetto agli standard previsti come obiettivo (uno ogni 20mila abitanti), con in testa il record negativo della Lombardia e delle regioni del Nordest.



Dove governa Roberto Maroni infatti i consultori sono solo 209, meno della metà di quanti dovrebbero essere. In Veneto sono 99: su 250 che avrebbero dovuto aprire secondo la legge. Va peggio in Friuli Venezia Giulia e in Provincia di Trento, dove ne sono presenti solo un terzo del previsto. Il primato va però alla provincia di Bolzano, dove i consultori pubblici sono zero: tutti privati.

E non è una questione atavica. Al contrario. La situazione è peggiorata, adesso, rispetto al 2004, anno della prima rilevazione del ministero della Salute ad oggi reperibile. Un deficit di servizio pubblico che lascia buon gioco al privato, quasi tutto cattolico. Al livello nazionale si contano 283 consultori privati d'ispirazione religiosa, tra Cfc e Ucipem, le principali organizzazioni del settore. Non va diversamente nel resto d'Italia. Le eccezioni? Basilicata, Emilia Romagna, Toscana e Valle d'Aosta, che di consultori pubblici ne hanno addirittura di più del dovuto.

ALL'ORIGINE DEI CONSULTORI
C'è anche un fronte che s'apre in retrovia: e non è la battaglia sui numeri - quanti consultori, quanti indirizzi per 20mila abitanti -. È una battaglia sul come. Sul cosa. A cosa servono i consultori familiari? A cosa dovrebbero servire? Che attività dovrebbero garantire alle ragazze?
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«Io c'ero», racconta Lisa Canitano, presidente dell'associazione Vita di Donna: «Io c'ero quando parlare di contraccezione e pianificazione familiare era un tabù, quando le donne non andavano dal medico se non per il parto e non sapevano cosa fosse un pap test».

«Io c'ero», continua: «quando i consultori nacquero con l'obiettivo indispensabile di dare un servizio laico, gratuito, accessibile e collettivo alle giovani, dell'Italia dalla sanità ancora cattolica». Insiste su questi tre punti, la fondatrice di Vita di Donna, una rete di riferimento in Italia per la salute femminile: laici, accessibili, collettivi.

Laici: perché se un luogo pubblico deve dare risposte, le dovrebbe dare a partire dalla scienza, dalla cura, e non dalla fede. Per questo la normalità di situazioni come quella lombarda, dove tutti i consultori privati accreditati sono cattolici (tutti, tranne uno), o come quella del Lazio, dove la decisione del governatore Nicola Zingaretti di impedire l'obiezione al loro interno è stata per ora sospesa dal Tar, è stonata rispetto allo spirito della legge del 1975.

L'ingresso del Cemp di Milano


«Verso chi si rivolge a noi sospendiamo qualsiasi tipo di giudizio», raccontano le operatrici del "Cemp", un ente privato, laico, di Milano, che segue centinaia di mamme e giovani donne da due generazioni: «Le scelte personali vanno sempre rispettate, e accompagnate nel modo migliore per la salute della persona. Senza imporre soluzioni». Ma come racconta il carotaggio telefonico de l'Espresso, non sempre funziona così.

L'AVANZATA DEI CENTRI PER LA VITA
Quando si tratta di scelte individuali su temi eticamente sensibili, l'interferenza c'è, eccome. Mediamente in Italia circa un ginecologo consultoriale su quattro è obiettore di coscienza. In Sicilia salgono a due su tre e sono circa la metà in Basilicata, ma non se la passano meglio le donne di Toscana, Marche e Valle d'Aosta, dove le percentuali variano tra il 30 e il 44 per cento.



C'è poi il buco nero della Lombardia, che nell'era Formigoni era solita non trasmettere il dato al ministero. Non pervenuto anche il Molise. Insomma: sono evidenti le difficoltà che incontra una donna che scelga di interrompere la gravidanza. In alcune regioni, infatti, il rapporto tra colloqui per l'Ivg e il successivo rilascio del certificato, mette in luce delle anomalie. Eclatante, fra tutti, il caso Marche: dove viene rilasciato un solo certificato per ogni 12,3 donne che lo hanno chiesto.

Un caso patologico rispetto alla normale proporzione tra quante sono inizialmente intenzionate ad abortire e quante arrivano in fondo a questa scelta. L'Espresso si era già occupato del caso della "bacheca degli orrori": il volantino affisso in un consultorio pubblico di Jesi per iniziativa del Movimento per la vita.
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E infatti in molti casi il consultorio pubblico è diventato un front-office dei militanti pro-vita, per intercettare le donne intenzionate a interrompere la gravidanza e demonizzarne questa scelta per spingerle verso i loro Centri per la vita (Cav), il cui scopo è convincere a seguire la gravidanza, con aiuti in denaro e altre forme di assistenza, compresa l'accoglienza temporanea. Sono circa il 7 per cento del totale, secondo dati dello stesso Movimento per la vita, le donne che i consultori pubblici inviano nei Cav per far loro cambiare idea.

I Cav sono strutture private gestite da volontari e sostenute al 68 per cento con soldi pubblici, di cui il 58 sono versati da comuni, asl e province, che in alcuni casi inviano a queste strutture anche vittime di tratta e di diverse forme di disagio; mentre per l'altro dieci per cento si tratta di non meglio definiti "contributi pubblici vari". Attualmente in Italia ce ne sono 355, presenti principalmente in Lombardia, Piemonte, Veneto e Sicilia.



UN SERVIZIO PER CHI?
Poi ci sono gli altri principi. L'essere gratuito, accessibile e collettivo: «Oggi viviamo un paradosso», spiega Lisa Canitano: «I consultori magari ci sono, ma non fanno quello per cui sono stati fondati. Ora tutti insistono per occuparsi di "prevenzione", "corsi pre parto" e simili. Ma se arriva una ragazza che sta male, che ha delle perdite, la mandano in ospedale. In ospedale, al pronto soccorso».

Non ha senso, sostiene la ginecologa. E lo stesso vale per le malattie sessualmente trasmesse: chi se ne dovrebbe occupare? «Il pronto soccorso, anche qui? Non è un uso sbagliato del servizio?», risponde lei: «Non dovrebbero occuparsene i consultori? Certo che sì! Ma non vogliono, evitano "l'utenza difficile": le immigrate con gravidanze non seguite da subito? Le mandano in ospedale». Il risultato è che è più semplice farsi accogliere dai centri per la vita cattolici, come mostrano i dati raccolti da l'Espresso: l'80 per cento delle donne che si rivolgono ai Cav sono straniere.

«L'altro giorno», conclude la Canitano: «mi ha chiamata una ragazza di Venezia: aveva bruciori e un problema alla vagina. Era sola. Non c'erano dottori al centro, e non aveva i 250 euro per pagarsi la visita al ginecologo privato. Cosa doveva fare? I consultori non si prendono più le loro responsabilità». Anche perché spesso non hanno nemmeno i medici necessari: in 7 regioni i ginecologi sono in media meno di uno per centro. In altre otto regioni non si va sopra l'uno e mezzo. Il che significa non poter garantire sempre il servizio.

Il paradosso sta lì: nella distanza fra bisogni e realtà. Quell'ideale di apertura, accessibilità e possibilità di condivisione, che era il cuore della legge, si è frammentato in alcuni casi di fronte a nuove attività, come quelle familiari (previste per decreto in alcune regioni) e la prevenzione, a volte non sanitaria, concreta, ma solo teorico-formativa. E non è solo una questione di preservativi, pillole, spirali - dove può andare oggi una ragazza a farsi mettere la spirale seguita da un medico? - o interruzioni volontarie di gravidanza.

QUELLO CHE SERVE
È anche un problema più ampio. «Nel nostro ospedale facciamo 10mila ecografie all'anno. Diecimila», spiega Paolo Scollo, primario di ginecologia dell'ospedale di Catania e presidente della Società italiana ostetricia e ginecologia-Sigo: «È uno spreco: questo è un servizio che per le maternità non a rischio potrebbe benissimo fare il consultorio. Ma lì non hanno gli strumenti. E così ricade su di noi».
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Lo stesso per le situazioni più complicate, come quelle legate all'emarginazione: «Ho fondato un servizio di emergenza per donne immigrate: un ambulatorio, dentro l'ospedale, dove le donne possano venire e avere tutti gli esami e avere l'assistenza necessaria in un solo giorno, seguite in modo professionale, anche se sono sbarcate da poche ore», racconta il primario.

«All'inizio eravamo aperti un solo giorno a settimana», continua: «Ora tre. E fra i nostri pazienti ci sono anche molte italiane indigenti. Per le quali venire a Catania per le visite è un costo, ma così sono sicure di non essere lasciate in attesa. È considerato un'eccellenza ora, ma per noi è uno sforzo, in periodo di tagli poi, e su un servizio di frontiera in cui il consultorio potrebbe aiutare moltissimo».

In alcune regioni si pensa proprio a questo: integrare i "fronti di contatto" con le donne all'interno di poliambulatori dove si possano fare subito gli esami necessari. «In Sicilia l'abbiamo fatto con la riforma dei punti nascita della nuova legge sanitaria», (quella dell'assessore Lucia Borsellino), continua il presidente della Sigo: «Dove sono stati soppressi perché troppo poco attivi, il consultorio sarà portato all'interno dell'ospedale per offrire le attività di assistenza alla gravidanza pre e post parto».