Nel 2013 sono stati stanziati 50 milioni di euro per la tessera ricaricabile dedicata ai più poveri. Ovunque procedure lente e farraginose per evitare di finanziare i furbetti. Mentre i poveri sono arrivati alla quota record di quattro milioni

Povertà, la Social card è un disastro della burocrazia

Per Mario Monti ed Elsa Fornero doveva essere un rimedio contro la povertà: «Un sostegno alle famiglie colpite da disagio economico».  Così, alle battute finali del governo dei tecnici e prima delle elezioni del 2013, è rispuntata la social card, la tessera "anti-povertà" varata da Giulio Tremonti nel 2008 e arenatasi tra costi esorbitanti e scarsi effetti.

Dopo ben quattro governi e sette anni il risultato non cambia: tra procedure complesse (con un doppio controllo tra comune e Inps), requisiti troppo stringenti per evitare di erogare contributi a chi non ha diritto e Comuni poco attrezzati, la card di Stato si è arenata. Risultato: zero efficacia nell'aiutare le fasce di popolazione più disagiate.

Secondo i dati Istat, in Italia ci sono oltre 4 milioni i poveri assoluti, che non possono permettersi di acquistare il minimo indispensabile, e quasi 7 milioni di cittadini in povertà relativa, mentre i servizi in prima linea (istruzione e salute) arretrano inesorabilmente. Negli ultimi anni la mannaia dei tagli si è infatti abbattuta sulle politiche sociali: dagli oltre 2 miliardi di euro del 2008 a meno di un miliardo di quest’anno.

L’obiettivo della nuova carta prepagata dallo Stato era arrivare fino a 400 euro al mese di sostegno in “cash” per i nuclei familiari più numerosi ed arginare la povertà minorile che tocca quasi un milione di under 18. Per la prima fase di rodaggio la sperimentazione ha coinvolto dodici città con oltre 250.000 abitanti con la possibilità di allargare alle regioni del Sud con altri fondi ad hoc. Ma, tra la pubblicazione in gazzetta ufficiale e la messa a punto della macchina organizzativa, si è arrivati a settembre 2013, con i comuni di Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Venezia, Verona impegnati nella selezione dei beneficiari. E qui sono iniziati i problemi.

Agli uffici comunali è infatti demandato il compito di accogliere le domande, stabilire chi ha diritto e chi no, incrociare le informazioni con l’Inps e scrivere un progetto personalizzato sulla famiglia. In base al budget di ogni ente locale viene quindi dato l’ok al pagamento via social card.

A Roma la procedura era stata affidata ad una cooperativa esterna, ma due anni dopo i risultati ancora non si sono visti. Di ritardo in ritardo, neanche il sito internet, voluto per il lancio della sperimentazione, funziona più: all’indirizzo www.socialcard.roma.it l’avviso è impietoso:«La pagina web non è disponibile».

L’ex assessore alle politiche sociali di Roma, Rita Cutini (che si è dimessa lo scorso dicembre) ammette i problemi: «Quello che doveva essere un mezzo di aiuto per i più fragili si sta rilevando un benefit per pochi. Tutto a causa dei requisiti stringenti, dei passaggi burocratici tra diverse istituzioni, dei mille controlli che rischiano di rimpallare le domande da una parte all'altra. Questo è un tema che richiede più velocità e più coraggio nella risposta. Lo stesso ministero del Welfare ha giudicato questo strumento troppo lento e farraginoso».

Anche negli altri undici Comuni che hanno raccolto domande ed elaborato i dati, scegliendo di organizzarsi internamente, non sono mancati i problemi: il sistema centralizzato prevede la verifica dei requisiti dell'Inps, mentre i ricorsi e l’integrazione della documentazione viene fatta dagli assessorati. Un passaggio infinito di timbri, carte bollate e documenti per evitare che i pochi fondi finiscano in tasca ai furbetti.

I controlli ferrei sono confermati anche dal ministero del Welfare: «In oltre metà delle domande era dichiarato il possesso di requisiti che in realtà non è stato successivamente verificato sulla base delle informazioni in possesso da Inps, Agenzia delle entrate e Comuni. Ci sono stati molti casi di persone che dichiaravano di aver perso il lavoro, ma non risultava alcuna contribuzione, oppure persone che dichiaravano di non percepire altri trattamenti assistenziali, invece erogati da Inps. O dichiarazioni che non corrispondevano con i dati in possesso del fisco. La selezione dei beneficiari è stata pertanto molto più accurata di quanto di solito avviene nell’ambito delle politiche socio-assistenziali».

Tanti controlli che avrebbero però vanificato gli effetti della Social card, almeno secondo Vera Lamonica, segretaria confederale della Cgil, che parla di un vero flop: «Le sperimentazioni in atto non hanno sortito alcun effetto. Sono frammentarie, settoriali, geograficamente limitate, di piccola entità e quindi inefficaci. È assurdo che con tanti poveri quei pochi soldi messi a bilancio non si riescano a spendere». "L’elemosina di Stato" si è dunque arenata nella burocrazia, bloccando di fatto anche l'avvio della fase successiva: i 167 milioni di euro stanziati per le regioni del sud.  Come ha confermato all’Espresso il ministero del Welfare: «L’estensione alle regioni del Mezzogiorno non è ancora avvenuta. Sulla base dell’esperienza nei grandi comuni verranno modificati criteri e procedure. L’obiettivo è avviare una iniziativa la più ampia possibile – e non quindi legata alle sole regioni del Mezzogiorno – nel contesto di un Piano nazionale per la lotta alla povertà. Nella legge di stabilità il tema dovrebbe trovare il suo spazio per il 2016». C’è ancora tempo per l’ennesima riforma anti-poveri.

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