Ecco tutte le accuse della nuova inchiesta sull’Expo. Il primo cittadino di Milano sotto accusa per la presunta retrodatazione di una nomina. Per il maxi-appalto da 272 milioni, invece, l’inchiesta coinvolge due ex manager pubblici e tre imprenditori del Mose di Venezia
Spesso in Italia la situazione è grave, ma non seria. L'ennesima conferma della perenne attualità del pensiero di Ennio Flaiano si ricava dagli ultimi sviluppi dell'inchiesta-bis sull'Expo 2015. Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, è stato iscritto nel registro degli indagati dalla procura generale di Milano e si è autosospeso dalla carica in attesa di chiarire la sua posizione giudiziaria, di cui non conosce ancora nulla.
L'Espresso ha ricostruito la complessa vicenda esaminando gli atti dell'inchiesta e interrogando personalmente i magistrati che hanno coordinato le indagini. Il risultato, in sintesi, è che Sala è sotto accusa per una data. E' indagato per aver firmato un atto amministrativo del 17 maggio 2012, che in realtà è stato scritto solo tredici giorni più tardi, il 30 maggio 2012.
A preparare l'atto retrodatato, e quindi falso rispetto alla data indicata, è stata una squadra di funzionari regionali che però non obbedivano a Sala, ma ad Antonio Rognoni, l'ex manager dei grandi appalti della Regione Lombardia, fedelissimo dell'allora governatore ciellino Roberto Formigoni. Nel periodo della presunta falsificazione dell'atto, Rognoni e la sua squadra erano in guerra burocratica contro Sala e il suo staff. E nei mesi successivi sono stati tutti arrestati per molte altre corruzioni, a cominciare da Rognoni. Ecco il quadro completo delle accuse ipotizzate dalla Procura generale nella nuova inchiesta che ha coinvolto anche il sindaco di Milano.
IL MAXI-APPALTO. La cosiddetta “piastra” è la base dell'esposizione universale: la struttura di fondo a cui si appoggiano tutti i padiglioni e costruzioni varie. La gara d'appalto viene celebrata solo tra dicembre 2011 e maggio 2012, dopo anni di liti interne al centrodestra tra la Regione di Formigoni e il Comune dell'allora sindaco Letizia Moratti. A gestire gli atti della procedura è Infrastutture Lombarde, la controllata della Regione diretta dall'ingegner Rognoni, che per legge fa da «consulente tecnico-amministrativo» alla società Expo 2015, guidata invece da Sala. I tempi della gara sono strettissimi: c'è il rischio di non finire i lavori in tempo. Gli inquirenti, negli atti dell'inchiesta, spiegano più volte che proprio questo era il peccato originale dell'Expo: i tempi troppo ridotti hanno imposto procedure d'urgenza.
Alla gara per la piastra partecipano 20 gruppi di grandi imprese. La base d'asta è di 272 milioni. A sorpresa vince la cordata capeggiata dalla Mantovani spa, con un ribasso eccezionale: meno 41,80 per cento. Oltre ad offrire il prezzo più vantaggioso (solo 165 milioni), l'azienda veneta ha presentato il progetto tecnicamente migliore, come riconosce lo stesso staff (ostile) di Infrastrutture. In quei mesi la Guardia di Finanza sta intercettando tutti, per l'inchiesta che nel 2014 porterà in carcere Rognoni e gli altri tecnici regionali accusati di corruzione.
Sala non gestisce la gara e quando il suo staff gli comunica che ha vinto la Mantovani, chiede ai suoi collaboratori se si tratti di un'impresa seria. I dirigenti di Expo gli spiegano che è una grande azienda, con mezzo miliardo di fatturato, che sta realizzando il Mose di Venezia. La Mantovani all'epoca non è ancora coinvolta negli scandali di corruzioni esplosi solo a partire dal 2013.
Informato della vittoria della Mantovani, Rognoni ha una reazione durissima: è furibondo, perchè avrebbe voluto far vincere la cordata di Gavio-Impregilo. A chiedere quel risultato, secondo le intercettazioni, erano gli uomini di Formigoni. Di qui le manovre che, sempre secondo le nuove indagini, rappresentano la prima ipotesi di reato: Rognoni ordina al suo staff di costringere la Mantovani a raddoppiare le garanzie. I suoi stessi collaboratori vengono intercetttati mentre definiscono «oscene» e «pericolose» le sue pressioni: «Un ricatto alla Mantovani».
Ottenuto l'appalto, la Mantovani inizia i lavori, ma chiede continue varianti, lamentando di dover eseguire progetti altrui, sbagliati e lacunosi. Le intercettazioni dei tecnici regionali confermano le gravi carenze progettuali («Abbiamo dimenticato gli ascensori!»). Quindi la Mantovani chiede 170 milioni di euro in più. Alla fine si accontenta di un extra di 95 milioni. In questo modo raggiunge quota 260 milioni: poco meno della base d'asta che aveva promesso di ribassare. Un troncone della nuova indagine punta quindi a verificare chi abbia concesso quegli aumenti di prezzo e se fossero giustificati.
Gli indagati in questo filone sono cinque: Angelo Paris e Antonio Acerbo, due ex dirigenti di Expo di area berlusconiana, già arrestati e condannati per altre corruzioni; Piergiorgio Baita, ex amministratore delegato della Mantovani e grande pentito (dal 2013) dell'inchiesta sulle maxi-corruzioni per il Mose di Venezia; e gli imprenditori Erasmo e Ottaviano Cinque, titolari della Socostramo, un'azienda in cordata con la Mantovani. Uno dei capitoli più delicati dell'indagine riguarda proprio il ruolo della Socostramo: Baita, a Venezia, ha confessato che si trattava di un'azienda fantasma, che incassava milioni senza fare niente. I titolari apparenti erano solo prestanome, utilizzati per far arrivare soldi a un politico: Altero Matteoli, ex ministro del governo Berlusconi.
Il sindaco Giuseppe Sala, per l'appalto della piastra, non risulta indagato.
LA TORTA DA SPARTIRE. La seconda accusa, una tentata turbativa d'asta, riguarda solo un imprenditore: Paolo Pizzarotti, titolare di una grande azienda di Parma, che guidava la cordata classificatasi al secondo posto. L'accusa nasce dagli interrogatori di Baita. Il manager della Mantovani ha dichiarato ai magistrati che, dopo essersi aggiudicato l'appalto, sarebbe stato avvicinato da Pizzarotti, che gli avrebbe chiesto di ritirarsi, per poi dividersi a metà l'affare. La cordata di Pizzarotti aveva proposto un ribasso inferiore di circa il 20 per cento. Se la Mantovani avesse rinunciato, quindi, Expo avrebbe dovuto pagare molte decine di milioni in più. Che Pizzarotti, secondo Baita, era pronto a girare alla Mantovani. Che invece ha rifiutato. Di qui l'ipotesi di un tentativo, fallito, di truccare la gara ormai aggudicata.
L'INCHIESTA SU SALA. Il sindaco di Milano è sotto indagine per aver firmato un atto datato 17 maggio 2012: la nomina dei 5 commissari della gara per la piastra e di due supplenti. Le intercettazioni di Rognoni e dei suoi collaboratori mostrano che il 15 maggio erano stati nominati solo i cinque titolari della procedura di gara, senza le due riserve Solo nei giorni successivi i tecnici di Infrastrutture Lombarde, tutti intercettati, scoprono che due commissari, tra cui Acerbo, sono incompatibili, perchè hanno già altri incarichi in Expo. Quindi dovrebbero dimettersi, con il rischio di invalidre tutto l'appalto e non finire in tempo i lavori per l'Expo. La soluzione viene escogitata nei 13 giorni successivi: lo staff di Rognoni viene intercettato mentre prepara il nuovo atto di nomina, che comprende anche i due supplenti. Il documento, scritto al computer, è pronto soltanto il 30 maggio. Ma sull'atto che viene portato alla firma di Sala, che ha il compito di nominare formalmente i commissari, compare la data del 17 maggio. Di qui l'interrogativo a cui dovrà rispondere la nuova indagine: Sala era consapevole di firmare un atto falsificato da altri?
IL SEGRETO A SENSO UNICO. L'intera inchiesta, che era stata aperta dall'ex procuratore aggiunto Alfredo Robledo, sembrava essersi chiusa nei mesi scorsi con una richiesta di archiviazione. Firmata dagli stessi tre pm che lavoravano con Robledo durante il suo feroce scontro con l'ex procuratore Edmondo Bruti Liberati. Il giudice Andrea Ghinetti ha però bloccato l'archiviazione, fissando un'apposita udienza. Quindi gli avvocati dei cinque indagati originari hanno potuto leggere e fare copia di tutti gli atti. Intanto però la procura generale, con il sostituto pg Felice Isnardi, ha avocato e quindi riaperto l'inchiesta. E allargato gli indagati anche a Sala da una parte e Pizzarotti dall'altra. Che però, come nuovi indagati, sono gli unici a non aver ancora potuto vedere nessun atto giudiziario: l'inchiesta riaperta è tornata segreta.
La Procura generale ha chiesto al gip Ghinetti altri sei mesi di indagini, ma ora conta di chiudere la nuova inchiesta-bis nel giro di un paio di mesi.