Nel nostro paese il proselitismo dell'Isis si intreccia sempre di più con la criminalità comune. E cresce soprattutto dietro le sbarre e tra chi ha difficoltà ad integrarsi

Tinello, tende rosse, mattonelle bianche e sul fornello acceso si sperimenta l’esplosione. L’ordigno è stato appena assemblato nella stanza accanto. Taglierino, martello, lo zolfo ricavato dai fiammiferi e poi un cilindro cavo da riempire. Tutorial di prototipi di bombe e inneschi fai-da-te. Si trovano sul profilo di Farees Alfqeeh, alias Alfaqi Abdulkhaleq, yemenita ma forse somalo, ventinovenne trapiantato a Trieste. Li illustra in canottiera dal suo appartamento, nel centrale quartiere a ridosso dell’Ospedale Maggiore. Farees in città è conosciuto.

Una sera con un suo amico ha fatto volare i tavolini di un bar e picchiato due ragazze. Ha anche precedenti per furto, rapina e ubriachezza. Ora si diverte sui social, garantisce che è solo un gioco. Fa il segno di vittoria dalla camera trasformata in sala di preghiera. Il letto accanto è quello di Karim, giovane iracheno già in contatto con i foreign fighters Pirabl Shwan rientrato a Bolzano, sottoposto a perquisizione, e infine salito su un volo per la Turchia, e Sheikhani Mohamed. Lui era partito da Brescia e, dopo aver militato sotto la bandiera nera del Califfato, ha raggiunto Trieste con la preparazione di un combattente.

Da gennaio 2015 sono state espulse dall’Italia per motivi legati al terrorismo jihadista 123 persone, più di una cinquantina solo negli ultimi otto mesi. Oltre la metà di loro ha precedenti di polizia per reati minori. Vite comuni di delinquenti comuni. Soldi quando tutto fila liscio e carcere quando il piano non riesce. E poi un motto di spirito: fare la guerra santa in casa nostra. È su questa strada che si muovono gli investigatori dell’Antiterrorismo: intercettare “born-again Muslims”, giovani musulmani di nascita non praticanti con trascorsi legati a spaccio di droga e pratiche non conformi ai dettami dell’Islam in cerca di “redenzione” o che vedono nel sedicente Stato islamico la possibilità di avere, almeno per una volta, un ruolo da protagonisti.

«La presenza di soggetti con precedenti nei gruppi terroristici è in crescita e, in un momento in cui lo Stato islamico perde progressivamente il controllo del territorio in Iraq e Siria, potrebbero concretizzare il jihad proprio dove vivono, usandolo per dare una veste di rispettabilità a comportamenti violenti», sottolinea un esperto del nostro Antiterrorismo.

E così non viene sottovalutata la lettera in cui un detenuto segnala: «Tre tunisini che conosco sono pronti a immolarsi». Qualche giorno dopo la polizia giudiziaria si precipita all’ufficio matricola del penitenziario e lui svela che quei suoi connazionali vivono da anni in una tranquilla provincia del nord Italia, campano spacciando e ora si sono buttati nel business dei migranti. «Al solito prezzo di 400 euro» Mohamed Kamel Eddine Khemiri, tunisino di San Marcellino nel casertano, che si definiva «issiano finché avrò vita», è stato arrestato dal Ros perché procurava contratti di lavoro e buste paga fittizie rilasciate da aziende tessili compiacenti.

Un intreccio, quello tra criminalità comune e terrore, delineato in una recente analisi dall’International centre for the study of radicalisation and political violence di Londra che evidenzia come «già oggi più del 40 per cento delle cellule terroristiche in Europa siano finanziate attraverso i proventi di spaccio e furti». Gran parte degli ultimi attentati nel Vecchio Continente ha visto protagonisti giovani con un passato di criminalità comune, lupi solitari o cellule autogestite che hanno colpito “soft target”, ossia obiettivi con bassi livelli di sicurezza, con armi comuni o ordigni da costruire nel garage di casa seguendo istruzioni reperibili su Internet come quelle descritte da Alfqeeh. Gli investigatori hanno quindi modificato gli indici spia di radicalizzazione: «Non ci concentriamo solo su cambiamenti quali farsi crescere la barba, non bere alcolici o indossare abiti tradizionali», rivelano. «Gli attentatori del Belgio erano delinquenti abituali con condotte apparentemente non distanti da quelle di altri criminali non musulmani. È necessario condividere i dati tra le forze dell’ordine, tener conto, in Italia in particolare, del ruolo della criminalità organizzata nel gestire le attività più remunerative e prestare attenzione ai flussi di finanziamento». Seguire il denaro e facilitare lo scambio di informazioni, la lezione di Giovanni Falcone.

Soldi che viaggiano attraverso operazioni di money transfer e carte prepagate. Così a Bari un quarantenne di Erbil, già noto alla Digos perché vicino a un suo connazionale ritenuto responsabile di “favoreggiamento all’ingresso in Europa di persone collegate alla cellula italiana di Ansar Al Islam, sarebbe stato incaricato di procurare visti d’ingresso. Obiettivo: «Favorire l’immigrazione e la permanenza clandestina di personaggi che starebbero pianificando azioni di tipo terroristico».

«Questi criminali sono i falliti di cui parlava il Profeta», denuncia Ahmed El Balazi, l’imam di Vobarno, paesino del bresciano dove è cresciuto Anas El Abboubi, il giovane rapper marocchino andato a combattere in Siria. Qualche mese fa alcuni suoi amici avrebbero cercato di fare proselitismo in particolare tra ragazzi con precedenti per minacce e rapina. Per El Balazi: «Sono giovani non seguiti dalle famiglie, che non vivono bene né in Italia né nel loro paese di origine. Si sentono non accettati, inutili».

Una condizione che si può acuire proprio nel luogo che dovrebbe fermare ogni violenza: il carcere.  «Fratello farò un po’ di soldi e andrò. Non voglio più stare dietro a questo mondo», scriveva in chat il macedone Karlito Brigande, uno dei tanti alias di Vulnet Maqelara. Un passato da militante dell’UçK - l’Esercito di liberazione nazionale che si prefiggeva la costituzione di una Grande Albania etnica - poi la criminalità e infine il carcere di Velletri.  Una volta in libertà s’è messo a cercare in rete i discorsi di Abu Bakr al-Baghdadi, un fucile mitragliatore m48 e ha organizzato il suo viaggio destinazione Iraq con l’obiettivo di immolarsi.

Quando i Carabinieri lo fermano nel suo appartamento, tra i palazzoni della periferia sud-est di Roma, trovano manoscritti in lingua araba, contatti con utenze macedoni, monegasche, saudite e anche quelle di due giovani che abitano nel quartiere, sospetti jihadisti alla fine arrestati per possesso di documenti contraffatti e cocaina. Sul tavolo c’è anche un foglio con annotato “Barhoumi Firas” l’imam fai-da-te che in carcere gli scriveva «sai non tutti gli uomini sono uomini, il leone rimane leone, il cane rimane cane» e Karlito era pronto a sentirsi leone: «Ripeto tante volte la parola Allah perdonami dal peccato mi purifico per te».

In Italia i detenuti sono circa 54mila, 11mila quelli provenienti da aree di religione musulmana, ma solo 6.600 praticanti. «A questi vanno aggiunti altri 1.400 che non dichiarano la propria appartenenza religiosa al momento dell’ingresso in carcere, forse anche per ragioni prudenziali», spiega Santi Consolo, a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il timore è quello di esporsi a un controllo maggiore dichiarando di essere musulmani. 41 sono i reclusi con l’accusa di terrorismo internazionale e si trovano solo in parte nel circuito AS2, “Alta sicurezza, livello 2”, del carcere di Rossano Calabro. «Per curare il percorso di deradicalizzazione - nota Consolo- si devono evitare eccessive concentrazioni, per questo motivo li abbiamo destinati anche ad altri istituti attrezzati per percorsi rieducativi mirati». Altri 380, di cui alcuni italiani, sono monitorati.

Oltre mille agenti vengono dedicati al controllo del fenomeno e si pone particolare attenzione alle seconde generazioni: «Su 480 detenuti nelle carceri minorili ne stiamo attenzionando una decina e circa la metà di questi sono nati in Italia», rivela Consolo.

Per evitare che si diffondano messaggi violenti, soprattutto tra i più giovani e vulnerabili, la preghiera deve svolgersi correttamente. «Come avviene per i detenuti di altre confessioni anche per i musulmani che si trovano in carcere, la religione può aiutare a superare l’avvilimento divenendo in qualche modo anche un fattore di riabilitazione», nota Mohammed Khalid Rhazzali, docente di sociologia della politica e della religione presso l’università di Padova e autore della prima e più completa ricerca sul tema, “L’Islam in carcere”. A novembre 2015 il Dap ha siglato un protocollo d’intesa con l’Unione delle comunità e Organizzazioni islamiche, ad oggi in carcere però sono autorizzati ad entrare solo 14 imam e poco più di una ventina di mediatori che parlano arabo e possono intercettare eventuali incitazioni all’odio o segnali di radicalizzazione.