Il governo non manca mai di annunciare i successi del Jobs Act. Ma le statistiche fotografano una realtà diversa. In cui il precariato continua a crescere e ha raggiunto ormai il suo massimo storico

Le voci sul declino del precariato, in Italia, paiono decisamente sopravvalutate. In molti, da Matteo Renzi fino al sottosegretario Tommaso Nannicini, parlano di "un boom impressionante del Jobs Act" oppure di un "aumento delle stabilizzazioni". Eppure non è così, anzi: non solo la ripresa dell'occupazione italiana è fra le più lente, ma nel 2015, secondo le ultime rilevazioni Istat, il numero di precari ha raggiunto il massimo storico da quando esistono dati in proposito.

Lo scorso anno, infatti, il 14 per cento dei lavoratori dipendenti è stato assunto a tempo determinato, in aumento di 0,4 punti percentuale rispetto al 2014. Nel 1993, per dare un'idea, il valore si fermava al 10,2 per cento.

È ancora presto per capire con precisione qual è stato il ruolo del jobs act o di altre politiche governative (come la decontribuzione) in questo fenomeno – serviranno studi accurati ancora al di là da venire. Intanto però quel che è certo è che nel 2015 il precariato non si riduce, come era nelle aspettative del governo.



Qual è invece la situazione nel resto del continente? L'agenzia di statistica europea descrive l'Italia come un paese in cui i precari sono grosso modo quanti in Germania, meno che in Francia, e molti, molti meno che in Spagna. Il Regno Unito è un caso a parte, e lì la fetta di lavoratori a tempo determinato è sottilissima.

Nazioni differenti hanno leggi altrettanto diverse che stabiliscono le caratteristiche dei contratti di lavoro: e proprio in Gran Bretagna il basso numero di precari potrebbe dipendere dalla maggiore flessibilità del "normale" contratto a tempo indeterminato. Se esso, per ipotesi, consente di assumere o licenziare con meno vincoli, c'è da aspettarsi che i datori di lavori lo usino più spesso rispetto a contratti di breve durata.

Come che sia, una tendenza è comune ai principali paesi europei: dove in misura maggiore, dove meno, ma l'incidenza del lavoro a tempo determinato appare in crescita – e da decenni. Una tendenza vera soprattutto in Italia, dove nel 1983 i precari costituivano il 6,6 per cento dei dipendenti per poi, fra qualche alto e basso, arrivare al 13,6 per cento del 2014.

Un aumento che troviamo anche in Germania – sebbene più lento – ma soprattutto in Francia e in Spagna. E proprio il paese iberico è quello in cui i precari arrivano a rappresentare poco meno di un quarto del totale dei dipendenti – persino in calo rispetto al decennio che va dal 1995 al 2005 in cui i valori erano più alti. Di nuovo, l'eccezione è il Regno Unito, dove a parte qualche leggera oscillazione negli ultimi trent'anni le cose non è che siano cambiate molto.



Non è neppure soltanto questione di quanto – anche di come. Chi sono queste persone, e quanto sono davvero precari i precari italiani? Un modo per capirlo è guardare alla durata dei loro contratti. Per la stragrande maggioranza di loro il lavoro si rinnova anno per anno, quando non meno: per circa 66mila persone il contratto si parcellizza fino a un mese alla volta. Relativamente rari i dipendenti con contratti più lunghi, dai due anni in su – forse perché a quel punto può diventare realistica la possibilità di un impiego a tempo indeterminato.



Se ci limitiamo a contare quanti sono, gli adulti fino a 49 anni compongono buona parte della forza lavoro a tempo determinato. La fasce giovani e anziane sembrerebbero meno interessate, ma è un'illusione: intanto perché si tratta di un gruppo piccolo di suo – l'Italia non è esattamente il paese più giovane del mondo –, poi perché fra loro diversi sono ancora alle prese con lo studio e dunque all'interno del mercato del lavoro non risultano proprio.

Possiamo però vederla da un altro angolo: qual è la probabilità che un lavoratore venga assunto o meno come precario, a seconda della sua età? Nel 2015, se un under 25 riesce a farsi assumere, il 57,1 per cento delle volte è con un contratto a tempo determinato. Undici anni fa era il 34,5 per cento. In crescita – se meno ripida – anche l'incidenza del precariato per gli under 35, mentre per le generazioni più anziane dal 2004 non ci sono state grosse variazioni. Un decennio intero in cui aumenta la disuguaglianza fra chi è protetto e all'interno del sistema, e chi invece è costretto a restarne al margine.



In nove anni i precari sono diventati circa 270mila in più, da aggiungere ai 2 milioni del 2005. Questo aumento si è concentrato su due tipi di contratti di natura opposta: i più brevi e i più lunghi. Da una parte crescono i posti che si rinnovano ogni anno o meno – e in particolare quelli che durano da uno a sei mesi –, dall'altro risultano in grossa crescita anche i contratti da due anni in su. A farne le spese, la fascia intermedia fra uno o due anni – gli unici in netto calo.



Scartabellando tra i dati possiamo anche scoprire di cosa si occupano, esattamente, i precari italiani. Emergono così le due facce del lavoro temporaneo: quello – minoritario – di professionisti, manager, personale altamente qualificato, per passare a personale tecnico e impiegati oppure a operai specializzati, venditori o muratori. C'è un po' di tutto: persino parte del personale delle forze armate, nelle quali sono occupati a tempo determinato 12mila uomini e poco più di 2mila donne.

In generale, gli uomini risultano impiegati in gran parte in professioni non qualificate: lavori come addetti alle pulizie, braccianti agricoli, corrieri o fattorini. Le donne si concentrano nel settore dei servizi e della vendita commerciale – categoria in cui troviamo assistenti di viaggio, cuoche, cameriere oppure, curiosamente, anche astrologhe e chiromanti. Non è dato sapere quanti siano di preciso, gli occupati o le occupate in quest'ultimo ambito, e tutto sommato forse è meglio così.