Pochi appalti a gara, nessuna trasparenza, soldi sperperati. E qualcuno che ha guadagnato miliardi a spese dello Stato. Il presidente dell’anticorruzione Cantone punta il dito su un sistema che non è mai cambiato

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Una lettera di sei pagine datata 2 febbraio riscrive la storia del Mose, il sistema delle dighe mobili per la salvaguardia di Venezia. Il mittente è Raffaele Cantone, presidente dell’autorità anticorruzione (Anac). Il destinatario è il prefetto di Roma, Franco Gabrielli. Il suo predecessore, Giuseppe Pecoraro, ha firmato quindici mesi fa il commissariamento del Consorzio Venezia Nuova (Cvn), il mostro a due teste che dalla capitale alla Serenissima ha gestito per trent’anni 5,5 miliardi di euro pubblici spediti in laguna ad arricchire un pugno di imprese: la Mantovani di Padova, la romana Condotte e Fincosit Grandi Lavori dei fratelli veronesi Mazzi.

Il breve memoriale dell’anticorruzione conferma quello che alcuni giornali, fra i quali “l’Espresso”, avevano ipotizzato. L’inchiesta penale che ha colpito le aziende del Consorzio e oltre quaranta fra manager e politici non ha cambiato la sostanza, il metodo e le modalità degli investimenti nelle opere contro l’acqua alta.

Le stesse imprese che hanno fatto il bello e cattivo tempo durante la gestione del doge Giovanni Mazzacurati, storico presidente del Cvn, e di Piergiorgio Baita, plenipotenziario della Mantovani, hanno continuato a seguire il modello fissato dai governi della Prima Repubblica, padri poco nobili di uno spreco infinito. Pochi appalti a gara, alla faccia delle procedure di infrazione dell’Ue, e un sistema perfetto per incamerare i ribassi d’asta, lucrare sulle forniture e sulle differenze di prezzo.
Intervista
Mose, una marea di stranezze
2/3/2016

Un fiume di soldi manca all’appello a fronte di lavori fatti male. I calcoli sull’«utile ingiustificato» evidenziano una cifra di almeno 53 milioni di euro, ai quali vanno sommati altri milioni di euro pagati per la cosiddetta “progettazione costruttiva”. E c’è una relazione diretta fra questi margini e i 40 milioni di «fondi occulti destinati anche al pagamento di tangenti». Sono queste le conclusioni del documento di diciotto pagine firmato dai tre commissari che dal dicembre del 2014 governano il Consorzio: Luigi Magistro, Giuseppe Fiengo, e Francesco Ossola. Il rapporto, inviato all’Anac dopo sei mesi di indagini interne, ha convinto Cantone a chiedere il commissariamento della Comar, dopo il Cvn. La richiesta è stata accolta e firmata dal prefetto di Roma Gabrielli l’8 gennaio.

Comar non è un’azienda qualunque, ma la vera centrale degli appalti, creata nel 2009 con un semplice atto interno firmato dal presidente del Cvn Giovanni Mazzacurati, finito ai domiciliari nel luglio 2013, e dai vertici delle tre principali imprese azioniste del Mose (Condotte, Grandi Lavori Fincosit e Mantovani). Comar è un’invenzione semplice ma geniale. È un consorzio, come il Cvn. Ma il Cvn, almeno formalmente, era sottoposto al controllo dell’esecutivo attraverso il Magistrato alle acque, cioè il Ministero delle infrastrutture. Comar, fotocopia del Cvn in termini azionari, è indipendente da una vigilanza che, in ogni caso, non è stata ferrea se è vero che fra gli indagati dell’inchiesta veneziana figurano due ex presidenti del magistrato alle acque: Patrizio Cuccioletta, che ha patteggiato una condanna a due anni e 750 mila euro, e Maria Giovanna Piva, ancora sotto processo.

Passando al setaccio carte e documenti, i tre commissari hanno rivelato che la Comar ha incassato decine di milioni di euro con il sistema dei ribassi d’asta e grazie a un aggio del 2 per cento per la “progettazione costruttiva”, a fronte di un altro 10 per cento dovuto al Consorzio per ogni lavoro e al 12 per cento previsto per legge come margine dovuto dallo Stato al Cvn.

Le conclusioni di Magistro, Fiengo e Ossola hanno indotto Cantone a inviare l’intera documentazione alla Procura e alla Guardia di Finanza con un’iniziativa che potrebbe avere conseguenze clamorose anche sul piano penale. «Non spetta allo scrivente», dichiara Cantone nella sua richiesta di commissariamento, «stabilire se questo sistema, per come è stato congegnato, sia servito a perseguire quelle medesime attività illecite che sono state accertate con riferimento al Cvn. Se la Comar non è mai stata coinvolta nelle indagini giudiziarie, è d’altro canto vero che di essa sono socie imprese i cui vertici sono stati pienamente coinvolti nelle indagini della Procura di Venezia».

Gli amministratori di Comar erano Stefano Tomarelli (Condotte), arrestato nel giugno 2014, Baita (Mantovani), arrestato a febbraio del 2013, e Salvatore Sarpero (Grandi Lavori Fincosit). Cantone si chiede quale sia il compito di questa società che aveva come unico scopo sociale di avviare le gare d’appalto richieste dall’Unione europea per evitare la procedura di infrazione. «È difficile individuare», prosegue la relazione del presidente Anac, «un ruolo utile e funzionale della Comar che non avrebbe potuto essere svolto direttamente dal Consorzio». Comar appare come una «delegata alla gestione, un’appendice esterna del Consorzio». Una fotocopia, appunto. Ma una fotocopia che produce milioni di utili visto che, quando le gare sono state fatte, il Cvn ha consentito a Comar «il diritto a incamerare eventuali ribassi d’asta con ciò eliminando il vantaggio per lo Stato».

«Il paradosso», prosegue Cantone, «è che Comar continua ad essere gestito dalle stesse imprese che sono state escluse dalla gestione del Cvn dopo il commissariamento».

In quanto a paradossi, siamo solo all’inizio. Comar, che doveva svolgere il ruolo di centrale appaltante per le gare del Mose, ha ricevuto il «lucroso incarico» senza alcuna gara e nasce, sempre secondo Cantone «con una logica e una finalità che appaiono purtroppo coerenti e in linea con l’illecito modus operandi messo in campo nel corso degli anni dal Consorzio Venezia Nuova e descritto compiutamente nelle ordinanze cautelari emesse dall’autorità giudiziaria».

Vale la pena ripercorrere la storia della Comar per capire come il lavoro di indagine fatto dai commissari e dall’Anticorruzione abbia scoperchiato un’attività dai risvolti sorprendenti.

Nel 2001 l’Unione europea archivia la procedura di infrazione aperta contro l’Italia dopo gli esposti degli ambientalisti per il regime di monopolio in cui si svolgevano i lavori della salvaguardia della laguna. Viene firmato un accordo con il governo che prevede l’introduzione delle gare su una parte di quegli interventi. In particolare, sulle difese dei centri abitati lagunari per 2.445 milioni e sugli impianti elettromeccanici del Mose per 721 milioni. In realtà l’ammontare dei lavori messo a gara sarà notevolmente inferiore. I soldi per le difese dei centri abitati non sono mai stati stanziati, i 721 milioni si riducono a 400. Di questi poi non tutti andranno a gara. Alcuni, come le cerniere del Mose, saranno affidati direttamente dalla Comar alla Fip, società di Selvazzano di proprietà del gruppo Mantovani. Nel frattempo lo Stato assegna al Consorzio altri 781 milioni per le bonifiche di Marghera, ancora una volta senza gara. È questa, scrivono i commissari nel loro atto di accusa, la prima “distonia” rispetto alle indicazioni dell’Ue. In sostanza Comar non si limita a fare le gare ma assume un ruolo strategico, con la possibilità di incamerare i ribassi d’asta. Il vantaggio delle gare per lo Stato è così annullato.

Quanto ci hanno guadagnato Comar e i suoi azionisti? Solo per i ribassi d’asta generali 14 milioni ai quali vanno sommati 39 milioni per il ribasso sui costi delle paratoie. In aggiunta ci sono i milioni di euro del 2 per cento sulla progettazione costruttiva. Così tra il 2003 e il 2014 il Consorzio versa alle tre principali consorziate un importo pari a circa 60 milioni di euro. I lavori che dovevano andare a gara restano saldamente nelle mani delle tre sorelle, Mantovani, Condotte e Fincosit che mantengono, si legge nella relazione, una doppia contabilità, «una a valori reali, una a valori virtuali». I prezzi registrati non corrispondono quasi mai ai prezzi ottenuti al libero mercato. La differenza rimane in casa.

La storia degli sprechi e dei costi impazziti sarebbe incompleta se non si abbinasse alle criticità tecniche.
Oltre ai costi elevati ci sono i malfunzionamenti, i cassoni esplosi, le paratoie in opera già coperte di ruggine. «La porta a mare della conca di Malamocco», segnalano i commissari, «ha subito ingenti danni alla prima mareggiata di forte intensità. Le indagini in corso stanno facendo emergere errori di progettazione. Di tali errori dovrebbero essere chiamati a rispondere Technital (gruppo Mazzi) e Comar».

Un capitolo a parte merita il jack-up. È una nave attrezzata per la posa e il trasporto delle paratoie che, a scadenze periodiche, vanno tolte dai fondali e portate alla manutenzione in Arsenale alimentando costi di gestione nell’ordine di decine di milioni all’anno. Il presidente del Magistrato alle Acque Cuccioletta e il Cvn avevano stabilito nel 2009 di costruire due jack-up con una spesa di 50,5 milioni di euro per nave. La gara è bandita dalla Comar.

La prima viene annullata, la seconda va deserta. A quel punto Comar affida i lavori direttamente alla società Cav, presieduta da Baita e controllata dal gruppo Mantovani. Cav però non è in grado di completare la nave e si associa con la Fip, un’altra impresa della Mantovani. Il saldo finale è che l’unico jack-up ultimato non ha mai preso il largo. Da un anno è fermo in attesa di collaudo. La gara, che prevedeva un ribasso da 7 milioni, tutti destinati a Comar, è stata sospesa e la valutazione affidata a un consulente tecnico. Nel braccio di ferro tra i commissari del Consorzio e Mantovani, che accusa il Cvn di tutti i problemi e lamenta costi aggiuntivi, la mancanza della nave potrebbe bloccare la posa delle paratoie. E dunque ritardare ancora i lavori del Mose che dovrebbero finire dopo numerosi rinvii, nel 2018.

L’accusa dei commissari è esplicita. «Come sta ora accadendo, le principali imprese del Cvn finiscono con il detenere una sorta di potere di veto. O si sta alle loro condizioni o l’opera non sarà mai terminata». Più chiaro di così.