Margini sempre più ampli. Lavori "standard" che diventano "prestazioni occasionali". Così il Jobs Act ha contributo al boom dei buoni lavoro

Anna Zilli, docente di Diritto del Lavoro all’università di Udine, ha lavorato a diverse ricerche sull’uso dei “buoni lavoro” in Italia, di cui l’ultima è apparsa nella pubblicazione “La flessibilità per la legalità e l’inclusione sociale” (Uniud 2015). A lei “l’Espresso” ha chiesto di spiegare l’evoluzione di questo fenomeno.

Il voucher era nato per regolarizzare pochi lavori occasionali. Ora è diventato uno strumento di massa. Cosa è successo?
«Basta mantenerne il nome ma cambiarne la funzione. Il voucher del 2003 (poi entrato in funzione nel 2008) era uno strumento utile, facile da usare e che per la sua semplicità si prestava benissimo come mezzo per pagare poche prestazioni marginali (e cioè lavoretti che sarebbero stati svolti in nero da soggetti altrimenti impegnati). Anno dopo anno, se ne è tenuta l’etichetta ma si sono eliminati i limiti (per soggetti e attività)».
Inchiesta
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Ma ha funzionato di più per far emergere situazioni di  illegalità o per creare un nuovo mercato?
«La formulazione originaria aveva una filosofia di emersione molto chiara: piccoli lavori marginali, appunto, che diventa più facile e più sicuro svolgere in regola. Ma alla lunga, annacquandone i limiti, il risultato è un travaso dal lavoro “standard”, con i suoi costi diretti (primo fra tutti, la previdenza) e indiretti (malattia, maternità, ferie), verso mere prestazioni di lavoro, che costano  pochissimo, anche perché il valore del voucher è lo stesso dal 2004. Così oggi i settori di maggior impiego del voucher sono il commercio (18,0 per cento), il turismo (13,7) e i servizi (13), mentre solo il 6 per cento ormai è venduto nel settore agricolo e appena il 3 per cento nei servizi domestici, le tipologie per cui era nato».
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Il Jobs Act ha cambiato i voucher?
«Con il Jobs Act si sono ampliati i margini: oggi si può lavorare per voucher, in ogni settore, anche nella pubblica amministrazione, e fino a 7.000 euro netti all’anno. I meccanismi di controllo previsti non sono ancora operativi e ci si attende che l’osservatorio Inps - Ministero del lavoro diventi operativo da giugno. Si tratta della forma di lavoro più flessibile e meno costosa, al riparo dalle possibili ispezioni».

Il boom dei voucher è “a tetto” o, al contrario, siamo solo all’inizio?
«Se non si interviene, il travaso da lavoro “standard” verso le “mere prestazioni” sarà sempre più imponente, soprattutto quando, tra due anni, vedremo presumibilmente diminuire lo sgravio sui contratti “a tutele crescenti”».

Esiste ormai un “popolo dei voucher”?
«Sì, esiste, i dati parlano chiaro.  Nel 2014 era già composto da un milione di persone, di anno in anno più giovani (nel 2008 l’età media era 60 anni, oggi è 36) e sempre più sono donne (dal 2014 oltre il 50 per cento). E da popolo “del nord-est”, nato per le vendemmie, il popolo dei voucher è oggi esploso al sud e nelle isole».
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Quali diritti bisognerebbe dare al “popolo dei voucher”?
«Intanto c’è un  problema di “lavoro grigio”: è facilissimo impiegare un lavoratore in modo continuativo ma far emergere solo un’ora - un voucher di lavoro, da esibire in caso di infortunio o di ispezione. Infatti, non è necessario specificare quando si userà il voucher, ma solo l’arco di tempo (30 giorni) di “presunto” utilizzo. Un costume che va contrastato  con la tracciabilità e con la riduzione dei tempi di validità dei voucher. Più in generale, il popolo dei voucher deve essere garantito rispetto ai diritti minimi di cittadinanza del mondo del lavoro: tutela in caso di malattia, gravidanza e maternità, oltre che alla possibilità di accedere a trattamento di sostegno al reddito. Il costo di queste tutele potrebbe essere coperto con un “maxi-voucher” (il primo del rapporto). Ed è un intervento urgente, prima che la forza dei numeri dica la sua».