Equivalgono al Pil di Germania e Regno Unito. Se tassati, aiuterebbero i Paesi dove la ricchezza è prodotta a fornire più servizi ai cittadini
Immaginate una rete globale che giorno dopo giorno riesca a portarsi via qualche migliaia di scuole dall’Italia, i migliori progetti di ricerca dalla Germania, milioni di ospedali e montagne di medicine salvavita in Africa.
E che con il bottino accumulato acquisti non solo ville e jet privati ma anche politici disposti a permettere loro di continuare a giocare a Monopoli con la vita della gente. Questo è, ogni giorno, l’effetto di una architettura finanziaria che consente ai più ricchi del pianeta di occultare capitali, in modo lecito e illecito, sottraendoli al fisco con conseguenze dirette sulla vita di tutti i cittadini: i mancati introiti fiscali si traducono necessariamente, in tagli all’assistenza pubblica - sanità, scuola, servizi - e in un aumento della pressione fiscale.
L’inchiesta dei “Panama Papers” condotta dall’International Consortium of Investigative Journalists, di cui “l’Espresso” fa parte, ha rivelato un meccanismo di elusione e abusi fiscali già intravisto nelle inchieste LuxLeaks del novembre 2014 e SwissLeaks del febbraio 2015 ma che ora è emerso nella sua interezza. Non solo multinazionali e banche, ma anche leader politici, imprenditori, sportivi e attori. Che sottraggono risorse ai Paesi ricchi e poveri di ogni angolo del Pianeta.
Quanto esattamente i paradisi offshore sottraggano alla collettività non è un dato facile da quantificare. Il professor Gabriel Zucman, economista della Berkeley University e autore di “The Hidden Wealth of Nation” (La ricchezza nascosta delle nazioni), stima che 7.600 miliardi di dollari di ricchezza individuale siano custoditi in questo tipo di società: un ammontare di risorse superiore al Pil, il prodotto interno lordo, di Germania e Regno Unito messi insieme e quasi quattro volte quello italiano.
Non a caso l’Europa, secondo i calcoli di Zucman, è l’area del mondo più espropriata: 2.600 miliardi di dollari di ricchezza custodita offshore avrebbero generato almeno 75 miliardi di dollari per i cittadini del Vecchio Continente. La Francia perde ogni anno tra i 40 e i 60 miliardi di euro in entrate fiscali, quasi l’equivalente del budget dell’educazione nazionale, uno dei più alti. Cosa questo significhi in termini di perdita di servizi e pressione fiscale è fin troppo evidente.
Le ricchezze nascoste nelle Isole del Tesoro di tutto il mondo potrebbero generare non meno di 190 miliardi di dollari all’anno in risorse da destinare alla collettività mondiale. Non tutte le nazioni sono egualmente penalizzate dall’evasione e elusione fiscale. I Paesi emergenti lo sono di più. In Africa ben il 30 per cento del patrimonio dei super ricchi è custodito offshore. Sono circa 500 miliardi di dollari che sottraggono alla collettività 14 miliardi di mancate entrate fiscali: quanto sarebbe sufficiente a garantire l’istruzione a tutti i ragazzi africani e a coprire le spese sanitarie di 4 milioni di bambini.
Ma l’occultamento dei capitali nei paradisi fiscali non è l’unico modo per espropriare ricchezza alle nazioni. Oltre ad una vera e propria evasione fiscale è molto diffuso anche il fenomeno dell’elusione fiscale, ovvero lo spostamento legale di investimenti e capitali tra Paesi per minimizzarne la tassazione. Insomma, si portano i soldi dove conviene. Negli ultimi decenni è cresciuta la corsa di molte nazioni all’accaparramento di investimenti stranieri attirati da aliquote fiscali sempre più basse. Emblematico è il caso dell’Irlanda che offre alle multinazionali una tassazione di solo il 12,5 per cento e che l’anno scorso ha concesso alle imprese tecnologiche e innovative addirittura un’aliquota del 6,5 per cento.
La chiamano “competizione fiscale” e riguarda tanti Paesi europei, dal Lussemburgo al Belgio, dall’Inghilterra all’Olanda. Secondo la ricerca “Still Broken”, condotta da Tax Justice Network e Oxfam, un’organizzazione internazionale che lavora per trovare soluzioni alla povertà e l’ingiustizia, nel 2012 le multinazionali statunitensi hanno spostato tra i 500 e i 700 miliardi di dollari verso Paesi esentasse o che applicano aliquote molto basse.
In questo modo circa il 25 per cento dei loro profitti annui è sottratto al fisco del Paese dove effettivamente avviene l’attività economica dell’azienda a danno dei cittadini che in quei Paesi e in quelle aziende lavorano. Se l’Honduras, ad esempio, riuscisse a contrastare questa elusione fiscale potrebbe recuperare circa il 15 per cento di risorse statali da spendere per finanziare sanità e educazione. Lo stesso vale per l’Uganda.
Qui la multinazionale petrolifera europea Heritage Oil and Gas si è rivolta allo studio Mossack Fonseca, al centro dei Panama Papers, per eludere il fisco ugandese per circa 400 milioni di dollari, una cifra superiore a quei 353 milioni di dollari che Kampala ha destinato alla spesa sanitaria l’anno scorso e che avrebbe potuto salvare milioni di malati.
Trent’anni di evasione delle élite e una serie di sofisticazioni finanziarie hanno fatto sì che alcuni individui non giochino più secondo le regole della maggioranza. I paradisi fiscali sono un riflesso di questa realtà e stanno avendo un impatto devastante sulle collettività a cui sottraggono risorse, contribuendo ad ampliare la disuguaglianza sociale nel mondo. L’International Bar Association, la più grande organizzazione mondiale di professionisti del settore legale, ha definito l’elusione fiscale una «violazione dei diritti umani». Ancora più severo il giudizio del presidente della Banca Mondiale, Jim Yons Kim, che ha parlato di «una forma di corruzione che nuoce ai poveri».
La recente crisi economica mondiale non ha arrestato il fenomeno. Al contrario. A stare ai dati Oxfam, nel 2015 appena 62 persone possedevano la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone, ossia la metà più povera della popolazione mondiale. I capitali di questi 62 individui sono aumentati negli ultimi cinque anni del 44 per cento, sfiorando i 1.760 miliardi di dollari, a fronte di una riduzione di ricchezza del 41 per cento per la metà più povera della popolazione.
I governi dovrebbero avere un ruolo cruciale nell’impedire questi trasferimenti ingiusti di ricchezza. E invece. Sebbene negli ultimi anni diverse inchieste giornalistiche abbiano rivelato più volte i meccanismi di occultamento dei capitali nei paradisi fiscali, la politica ha fatto poco per portare trasparenza.
Al contrario, in molti casi si è resa complice di chi prima espropria la società e poi pretende di influenzarne le scelte: i fratelli Koch foraggiano a suon di milioni di dollari il partito repubblicano negli Usa; in Gran Bretagna sono stati gli hedge fund a finanziare la campagna elettorale del 2010. E come dimenticare l’islandese Sigmundur David Gunnlaugsson (che si è dimesso) e il britannico David Cameron? Sono primi ministri coinvolti in società offshore che hanno sottratto risorse alle collettività che governano. Dopo i Panama Papers, che hanno coinvolto anche i vertici politici di Cina e Russia, sembra più chiara la resistenza dei governi a legiferare in tema di trasparenza fiscale.
Ma una soluzione occorre. Oxfam vede nell’introduzione dell’obbligo di rendicontazione pubblica Paese per Paese per le multinazionali operanti nella Ue, il cosiddetto "Country by country reporting" approvato dall’Ocse, una delle misure indispensabili per la lotta all’elusione fiscale.
Una delle ultime opportunità per i governi per dimostrare da che parte vogliono stare: con i cittadini o con gli abitanti di paradisi, quelli fiscali, che rendono consapevolmente un inferno la vita di tutti gli altri.