Dalla Lombardia alle zone colpite dal terremoto. Per non stare con le mani in mano, per usare sul campo la propria esperienza di soccorritore. Nei giorni del post-sisma che ha devastato Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto per gli uomini della Croce rossa del comitato lombardo non c’è però nessuna missione: «Non c’è bisogno di voi» è la risposta arrivata dal presidente nazionale Francesco Rocca.
I dipendenti che si sono fatti avanti sono tra i 200 lavoratori che dopo la privatizzazione del 2014 hanno deciso di mantenere il contratto pubblico. Da anni timbrano ma fanno poco. Le dieci ambulanze non escono dai garage. Sono autisti e barellieri ma non fanno più la loro professione. In quanto dipendenti pubblici, non possono fare servizi in convenzione (come, ad esempio, le ambulanze per il 118 o il trasporto di malati fuori dall’emergenza) perché esclusi dalla legge.
E poi nel 2015 un altro passo verso il paradosso. «Da inizio anno non lavoriamo più sulle ambulanze e giriamo a piedi per Milano svolgendo un servizio di pochissima utilità, equipaggiati con uno zainetto pieno di garze e cerotti», ha raccontato al Fatto quotidiano Mirco Jurinovic, soccorritore e dirigente sindacale di Usb. Costano 4 milioni di euro all’anno ma non vengono utilizzati. È il risvolto kafkiano della privatizzazione. Ci sono voluti due anni per provare finalmente a trasformarsi in una struttura efficiente, indossando il vestito nuovo dell’associazione privata. Gli effetti non sono quelli sperati.
Ecco come buttare al vento la passione di 150mila volontari, quasi tremila dipendenti tra personale civile, infermieri e dipendenti del Corpo, e impoverire il servizio d’emergenza in molte Regioni.
Il piano di riorganizzazione pensato dall’ex premier Monti ha provocato evidenti cortocircuiti: esuberi e stipendi tagliati per una fetta di addetti, mentre altri vengono pagati per non fare nulla. Oltre al tentativo di svendita dell’immenso patrimonio di quasi 1.500 palazzi e terreni, il frutto di 150 anni di donazioni di chi pensava di fare del bene. Nella fase di transizione è intervenuto con due proroghe anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin che ha messo sul piatto della finanziaria oltre 300 milioni di euro.
Fondi necessari a pagare i debiti e tenere in piedi l’esercito di barellieri e operatori del primo soccorso. Emilia De Biasi, presidente Pd della commissione Sanità al Senato è tranchant: «L’importanza della Croce Rossa è enorme e appare evidente soprattutto in situazioni drammatiche come quella del terremoto. Nonostante ciò, la Cri rischia di essere un carrozzone con un patrimonio di sedi e competenze svilito. La riforma è un’urgenza e non si può continuare con le proroghe: ci vuole trasparenza per tutta la gestione e bisogna definirne una nuova missione».
Nel 2012 si decide di dire basta alla crocerossina di Stato. Privatizzando le organizzazioni provinciali, quindi sciogliendo gli apparati centrali che non hanno mai conosciuto la spending review e «bruciato» un miliardo di euro negli ultimi dieci anni.
E qui viene a galla il primo problema, la ricollocazione del personale: ancora adesso ci sono circa 2mila persone da piazzare. Il decreto firmato nel settembre 2015 dal ministro della pubblica amministrazione Marianna Madia prevedeva esclusivamente il traghettamento verso i ministeri, o istituti come Inps o Inail. Un non sense riparato con la finanziaria, che allarga la possibilità anche al servizio sanitario nazionale, per gran parte degli interessati una collocazione naturale.
«Temiamo che il ministero non riesca a gestire il ricollocamento - denuncia Nicoletta Grieco della Cgil - finora c’è stata una gestione scomposta e nessun coordinamento con le Regioni ed Asl locali. Mancano 4 mesi alla fine dell’anno e il rischio è la mobilità, seguito dal baratro del licenziamento».
In tanti hanno preferito non abbandonare l’uniforme e sono passati ai nuovi comitati. Con un salto all’indietro: lo status di associazione privata prevede contratti targati Anpas (Associazione nazionale pubbliche assistenze) con stipendi mensili decisamente inferiori, da 1.600 a 1.100 euro. Epicentro della cura dimagrante il Lazio, dove sono concentrati oltre 1200 dipendenti, su un totale nazionale di 2788 addetti.
Disorganizzazione e casi-limite come quello di D.M., operatrice precaria che per 25 anni ha lavorato al Centro di educazione motoria (Cem) di Roma. Nel 2011 decide di fare causa per ottenere il tanto agognato contratto a tempo indeterminato e il Tribunale dopo due anni le dà ragione. «Con il nuovo corso mi è stato imposto di non mettere più piede al Cem. Spostata al comitato metropolitano, ho seguito l’emergenza freddo: un campo di tende per dare assistenza ai senzatetto. Il piano è durato dal 15 gennaio al 21 marzo e da allora ogni giorno timbro per non fare nulla». Mentre al centro per la cura di pazienti con gravi disabilità diventato di eccellenza grazie ai quattrini del leggendario canzoniere Mario Riva il personale è stato dimezzato e l’assistenza ridotta ai minimi termini.
La privatizzazione avrebbe dovuto portare efficienza e risanamento economico. Nel primo anno - il 2014 - il «disavanzo di cassa è perdurante, posizione debitoria è preoccupante e pesante ricorso all’anticipazione bancaria», ha sottolineato la Corte dei conti. Così per coprire i buchi di bilancio la soluzione è drastica, vendere i gioielli di famiglia: 1.045 fabbricati e 413 terreni. Un’impresa non facile. L’ultimo tentativo risale al maggio 2014, quando 19 lotti tra palazzi e appartamenti vengono messi all’asta: da La Spezia a Schio, fino a Casale Monferrato e Pavia. Finisce all’incanto anche la storica sede sul lungomare di Jesolo, Venezia, e presto la stessa sorte toccherà al palazzetto ottocentesco del quartier generale di Roma.
In Laguna il prezzo precipita: da 42 milioni è sceso a 34. Sull’eccessivo ribasso la deputata grillina Arianna Spessotto ha presentato un’interrogazione parlamentare. La risposta del ministero della Salute è arrivata il 17 marzo scorso. Per il sottosegretario Vincenzo De Vito “nessuna svendita”: il ribasso di un quinto del valore è regolare, dopo che le prime due sedute sono andate deserte. Dopo c’è stato un nuovo sconto sul valore dell’immobile ma ancora nessun acquirente.
Eppure, a Jesolo, partiti e sindacati non si danno pace perché vedono il rischio di smobilitare i servizi, con 50 dipendenti a spasso. E il via libera alla speculazione. «Quel palazzetto sul mare, con 18mila metri quadrati di spiaggia, ha dei vincoli ben precisi», attacca Salvatore Esposito di Sel. E anche per la Sovrintendenza dei beni culturali si tratta di un edificio di interesse storico, in cui non si possono rimuovere gli affreschi né alterare la struttura delle stanze. Per il conte Ottavio Frova, la donazione del 1928 si vincolava alla cura della “fanciullezza trevigiana”. Nel tempo è prima diventata una colonia per i malati di tubercolosi. Oggi è anche un centro per i rifugiati.
Fabio Bellettato, ex capo della Cri Veneto, sul tema aveva lanciato un appello al presidente nazionale Francesco Rocca. Era in disaccordo sulla vendita del patrimonio immobiliare come unica possibilità di risanamento. La richiesta di Bellettato è rimasta inascoltata, mentre lui si è dimesso.
Mancanza di democrazia, centralizzazione del potere e interesse solo per le missioni all’estero: sono le critiche mosse dai comitati periferici verso Francesco Rocca, avvocato che gestisce l’ente sinonimo di solidarietà ed aiuto come un padrone assoluto.
Un esempio? Quando nel 2011 la funzionaria Anna Montanile ha denunciato alla trasmissione tv “Report” le incongruenze della gestione delle sedi è stata trasferita all’archivio storico. A fare ricerche sulle bandiere.
Oggi mentre la Cri è alle prese con un serrato piano di risanamento, Rocca è spesso all’estero per missioni che fanno bene alla sua immagine di numero due della federazione internazionale: Iran, Siria, progetti post terremoto di Haiti ed emergenza profughi. «Non ho rimborsi né indennità, mi viene pagato solo l’albergo quando sono in missione», precisa Rocca a “l’Espresso”: «Da presidente non prendo stipendio, sono totalmente volontario. Purtroppo veniamo da trent’anni di assoluto abbandono. Abbiamo bisogno di dipendenti, ma non in quel numero e con quello spreco».
Il presidente-volontario è stato per più di quattro anni commissario straordinario, voluto da Berlusconi (con un budget annuale di 320mila euro), da maggio 2015 è direttore dell’Idi di Roma, l’ospedale dermatologico più grande d’Europa. Di proprietà della Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione è al centro di una storiaccia brutta di bancarotta fraudolenta, fatture false e un passivo patrimoniale di 845 milioni di euro.