Quello scambio infame dietro l’uccisione del giudice Antonino Scopelliti

La nuova indagine della procura di Reggio Calabria potrebbe portare a una svolta. A motivare l'omicidio, una trama eversiva e un patto tra cosche

Un omicidio eccellente, ancora irrisolto. Forse il prezzo che i calabresi dovevano pagare a Totò Riina e alla sua Cosa nostra stragista per la mediazione che ha pacificato una città in guerra. Oppure il motivo è un altro? E lo potrà chiarire solo la nuova indagine della procura di Reggio Calabria, che sembra vicina a una svolta. Dietro l’uccisione del giudice Antonino Scopelliti c’è una trama eversiva.

Interessi torbidi, che convergono in un patto criminale tra mafiosi siciliani e calabresi che si è manifestato dieci mesi prima del 23 maggio ’92, giorno della strage di Capaci in cui morì Giovanni Falcone con la moglie e gli uomini della scorta. Per l’uccisione di Scopelliti nessun colpevole, solo due processi alla commissione regionale di Cosa nostra, che sono finiti con l’assoluzione in Appello. Alla sbarra erano finiti prima Riina e poi Provenzano.

Per questo motivo, visto che i vertici della mafia siciliana sono stati già processati, c’è chi sostiene che la nuova inchiesta possa guardare anche oltre la pista già battuta finora del favore tra mafie. E puntare tutto sulle responsabilità della ’ndrangheta. Un’ipotesi, certo. Restando alle carte, però, numerosi pentiti hanno indicato lo scambio di "cortesie” tra padrini. Oppure il movente è da ricercare nelle parole pronunciate davanti ai giudici dal pentito Umberto Di Giovine. Il collaboratore sostiene che il boss Nino Imerti, a capo della zona in cui è stato ucciso Scopelliti, avrebbe incontrato il giudice nel 1989 subito dopo l’omicidio di Ludovico Ligato intimando al magistrato che se per quel delitto fosse stato indagato il cognato avrebbe ucciso i giudici che si erano occupati dell’inchiesta.

Sono più numerosi i pentiti che invece riconducono l’omicidio Scopelliti al favore che la ’ndrangheta ha fatto a Cosa nostra per aver messo fine alla carneficina in riva allo Stretto.

La condanna a morte del magistrato calabrese è stata eseguita nel tardo pomeriggio dell’8 agosto ’91 a Villa San Giovanni, in località Piale. Piale, un dettaglio importante. La zona in cui è avvenuto l’agguato, in certi territori, è come un marchio di fabbrica. Qui Scopelliti è stato assassinato dai proiettili di due sicari mentre guidava l’auto sulla strada che l’avrebbe riportato a Campo Calabro, il suo paese di origine alle porte di Reggio Calabria. Città all’epoca insanguinata da un’interminabile guerra di mafia. Mille morti, raccontano le cronache. Numeri da conflitto bellico. Il giudice in quei giorni era inquieto. Nonostante fosse in ferie stava studiando i faldoni del maxi processo a Cosa nostra. Sarebbe toccato a lui sostenere l’accusa nell’ultimo grado del processo istruito dal pool antimafia di Palermo contro la cupola siciliana di Riina e "compari”.

«Si era fatto inviare le carte fino in Calabria, poi la sera prima dell’agguato disse a mia madre che avrebbe anticipato la partenza per Roma», ricorda la figlia Rosanna. Il territorio, forse, aveva iniziato a emettere suoni ostili. Rosanna Scopelliti ci confida un altro particolare: il clan di Campo Calabro era d’accordo con la scelta di ucciderlo. Ma contando poco nello scacchiere, ha dovuto accettare la decisione dei vertici provinciali. Dopo l’agguato una telefonata arriva all’Ansa: è la rivendicazione della Falange Armata. La sigla ritornerà puntuale a ogni delitto eccellente, anche nel periodo delle stragi firmate dai Corleonesi.

Ventisei anni dopo alla procura antimafia di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho non si danno per vinti. E all’orizzonte si intravede un punto di svolta. I magistrati hanno in mano qualcosa di concreto. Due nuovi collaboratori, che avrebbero indicato i presunti assassini. Pentiti che hanno saputo da altri affiliati i nomi dei sicari del magistrato di Cassazione. E non è escluso, al momento, che almeno uno dei due killer si trovi già in carcere, finito nella rete della procura per altre inchieste antimafia. Da qualche mese, poi, una figura di peso dei clan di Villa ha deciso di collaborare. Custodisce molti segreti, dicono i detective che conoscono il suo spessore. A lui sicuramente i pm chiederanno notizie sul caso Scopelliti. Il fascicolo è nell’ufficio del sostituto Giuseppe Lombardo.

Che ci siano elementi nuovi, del resto, era chiaro già a metà dicembre. I media locali, infatti, avevano rilanciato la dichiarazione del procuratore capo Federico Cafiero De Raho: «Troveremo chi ha ucciso Antonino Scopelliti». Una frase pronunciata durante la conferenza stampa in occasione dell’operazione "Sansone”, che ha portato in cella i vertici dei clan che controllano Villa San Giovanni. Area strategica, Villa. Governata da due famiglie, un tempo nemiche, ma che dopo la fine della seconda guerra di mafia condividono il territorio in armonia. Una guerra che inizia proprio a Villa nel 1985 con l’attentato al Riina calabrese, Nino Imerti detto il "Nano feroce”. E sempre nel regno degli Imerti termina con l’omicidio del giudice Scopelliti. Un caso? Oppure un messaggio: dove la tragedia aveva avuto inizio deve avere fine.

Le chiavi per decifrare con esattezza questo delitto le forniscono le ultime inchieste sul vertice "segreto” della ’ndrangheta. L’impasto che lega pezzi di Stato deviato ai mammasantissima ha un ingrediente indispensabile e inodore: la massoneria. Una cupola, a lungo invisibile, il cui profilo, ora, è impresso in migliaia di pagine di verbali. Il maxi processo per 78 persone, tra cui compaiono avvocati-padrini, boss-imprenditori, sacerdoti collusi e persino un senatore della Repubblica, è vicino. Dagli stessi atti affiorano i dettagli di un’amicizia tra ’ndrine e cosche siciliane, negli anni diventata una sinergia stabile e decisamente pericolosa per la democrazia di questo Paese. Un’alleanza dai tratti, in un certo momento storico, eversivi. Per comprendere le ragioni dell’omicidio Scopelliti è necessario immergersi in queste sabbie mobili della Repubblica dove insospettabili capi mafia stringono la mano di uomini delle istituzioni. E dove la parola d’ordine è trattare. Trattative utili a mantenere l’ordine, a bandire il caos. Per farlo l’organizzazione calabrese sfrutta ogni pedina. Il pentito Antonino Lo Giudice, per esempio, racconta di un complice - colonnello dei carabinieri già condannato per concorso esterno - che nel porto di Gioia Tauro incontrava agenti della Cia, «dove avevano un ufficio». Anche di queste insospettabili particelle è fatto il dna della ’ndrangheta che ha ucciso il magistrato.

Ai funerali di Scopelliti c’era anche Giovanni Falcone. Andava ripetendo che il prossimo obiettivo sarebbe stato lui. Una previsione inquietante, soprattutto perché pronunciata dal magistrato che fin dall’inizio aveva visto nel delitto del collega commesso in Calabria qualcosa di enorme. Aveva intuito, Falcone, che esisteva tra Sicilia e Calabria un network tra le due mafie più potenti. Una rete di cosche che parlano dialetti diversi. Disposte, però, a scambiarsi favori, a progettare azioni comuni, a investire insieme. Sinergie criminali.

Il pentito Nino Fiume è stato un ingranaggio essenziale della famiglia De Stefano. I padroni di Reggio, la cui storia si intreccia a cinquant’anni di misteri italiani. Sullo sfondo destra eversiva, logge coperte, servizi deviati e capi bastone. I De Stefano sono un clan dall’anima nera, con menti raffinatissime. Fiume è stato uno dei primi, nel 2015, a dare un nome al tavolino comune tra le mafie, che lui chiama "il Consorzio”: «Prendeva le decisioni che riguardavano le azioni criminose più delicate. Per consumare gli omicidi eccellenti si verificavano anche scambi di killer tra le varie strutture criminali consorziate». Ma c’è di più. E lo spiega ai pm calabresi un’altra gola profonda: «Ci si consultava, ci si scambiava favori, anche omicidi. Quando Cosa nostra chiedeva un favore ai referenti calabresi o campani, partecipava in prima persona con propri uomini all’esecuzione dei delitti».

L’agguato al pm di Cassazione, però, segna un altro punto di svolta. Fino all’8 agosto ’91 la regola generale impediva ai clan calabresi di uccidere uomini delle istituzioni. In cambio gli ’ndranghetisti avrebbero ottenuto aiuto da persone «di un certo livello, che pur essendo esclusi dai poteri legislativi avevano le capacità economiche per poter entrare in determinate situazioni» ha spiegato un altro collaboratore. Questi rispettabilissimi rappresentanti della borghesia cittadina erano coloro che Paolo De Stefano, il "Nero” dello Stretto, chiamava «intoccabili».

L’omicidio di Scopelliti, dunque, viola quei patti. Poi, grazie anche al ruolo di alcune toghe «garanti della pax mafiosa», la lacerazione si è ricomposta. Si ristabilivano così gli accordi validi prima della morte del magistrato. Saltati, forse, perché Cosa nostra aveva chiesto un favore. E la ’ndrangheta non poteva rifiutare. Doveva essere riconoscente al gotha mafioso siciliano che si era mosso per portare la pace nella città calabrese. Con Riina, in missione a Reggio nei panni inediti di uomo di pace. Visita avvenuta, dice il pentito Consolato Villani, prima dell’agguato al magistrato. Un’azione eclatante che non trova d’accordo tutti i generali dei clan. Per dirla con le parole di un ex colonnello del crimine, «ad alti livelli bisogna essere amici dello Stato, non nemici».

Mafia calabrese e siciliana, dunque, unite nella lotta, negli affari, nella strategia politica. In questo senso anche un altro delitto eccellente fornisce ulteriori tasselli per ricomporre il puzzle. L’assassinio, il 26 giugno ’83, del procuratore di Torino Bruno Caccia. Ucciso su mandato di un capo bastone della ’ndrangheta piemontese, Domenico Belfiore. Diversi collaboratori siciliani dei "Catanesi”, guidati dal gruppo di Jimmy Miano, ammettono di essere stati preallertati dell’imminente agguato al magistrato. Ciò che contava per Belfiore è che gli alleati con cui divideva il territorio torinese sapessero a chi dovevano dire grazie per l’eliminazione del "nemico comune”. E questo fatto, peraltro accertato da un tribunale, conferma quanto rivelato, a distanza di anni, dall’indagine sulla cupola segreta della ’ndrangheta: il capo dei Catanesi-Torinesi, Jimmy Miano, è lo stesso indicato dal pentito Nino Fiume quale membro del "Consorzio”. Accanto a questo, c’è poi una pista - archiviata ma sulla quale la famiglia del giudice difesa dall’avvocato Fabio Repici insiste e chiede nuove verifiche - che conduce al Casinò di Saint Vincent. Il procuratore Caccia stava indagando sul riciclaggio di quattrini mafiosi nella casa da gioco. Un giro di cui anche la ’ndrangheta avrebbe fatto parte. E dove compare un nome, Rosario Pio Cattafi, in passato indagato, e poi prosciolto, con Paolo Romeo, l’avvocato della cupola reggina in quota De Stefano. Un dettaglio ulteriore: l’assassinio di Caccia sarà rivendicato dalle finte Br. Per Scopelliti furono i "falangisti armati” a depistare. In questo senso i delitti Caccia e Scopelliti, gli unici magistrati uccisi dalle cosche calabresi, rivelano molto più di quanto è stato raccontate.

C’è poi un ex capo mafia di Messina, Gaetano Costa, al corrente di altri particolari sul patto siglato tra le due mafie: «I legami fra Cosa nostra e ’ndrangheta erano strettissimi. Si arrivò anche a progettare e a dare forma (parliamo del periodo successivo alle stragi di Falcone e Borsellino) a una super-struttura che comprendeva le due organizzazioni: la Cosa Nuova, questa serviva anche a inserire in modo più organico nel tessuto del crimine organizzato siciliano e calabrese persone insospettabili, collegamenti con entità politiche, istituzionali e massoniche». Costa fa i nomi di alcuni padrini col grembiulino. Nomi pesanti: Giuseppe Mancuso e Giuseppe Piromalli. Che è per caratura come dire Riina o Messina Denaro. «La manifestazione più cruenta di questa alleanza è l’omicidio di Scopelliti», conclude.

Non tutti dalla sponda calabrese erano, però, d’accordo su come era stata gestita la vicenda. Per questo i clan si spaccano sull’ulteriore proposta di Riina, che invita la ’ndrangheta a partecipare alla mattanza stragista. In Calabria solo tre mammasantissima condividono la volontà suicida, i De Stefano sono tra questi. In due mesi, tra ’93 e ’94, si manifesta qualche timido tentativo. Poi il ritorno alle origini. In silenzio ricostruiscono le basi per il futuro. Mettono in pratica la teoria dell’inabissamento. E abbandonano i Corleonesi al loro destino.

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