I nuovi leaks rivelano la contromossa del colosso di Cupertino, dopo le accuse di elusione miliardaria in Irlanda: traslocare in un altro paradiso fiscale

Quattro anni fa, quando l’Irlanda, paese chiave per le operazioni fiscali internazionali di Apple, comincia a diventare un posto scomodo per le critiche sollevate, soprattutto dall’Unione europea, sul suo regime taglia-tasse, Tim Cook, presidente del colosso di Cupertino, accarezza l’idea di traslocare altrove: spostarsi, poco per volta, a Jersey, la piccola isola del Canale, dove l’imposta sui profitti delle società è zero.

È questo il succo di una serie di documenti dei Paradise Papers analizzati dal giornalista Simon Bowers, che fa parte del consorzio Icij. Al centro delle rivelazioni ci sono gli archivi di Appleby, lo studio professionale fondato alle Bermude che offre servizi offshore in numerose località, tra cui l’Isola di Man, Guernsey e Jersey. È un racconto basato su montagne di carte finora segrete dei paradisi fiscali, ottenute dal quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung e condivise con l’International Consortium of Investigative Journalists, di cui l’Espresso è partner esclusivo per l’Italia insieme a Report di Rai 3.
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Questa storia inedita su Apple si apre nel maggio 2013, quando Tim Cook si siede davanti a un comitato del senato americano, che sta indagando sui miliardi di dollari di tasse che il colosso dei computer non paga, spostando utili in filiali irlandesi accusate di essere «società fantasma». Il grande manager reagisce così: «Noi paghiamo tutte le tasse, ogni singolo dollaro. Non dipendiamo da marchingegni fiscali… non accumuliamo denaro in qualche isola del Caraibi».

Ora l'inchiesta giornalistica di Bowers spiega che, appena cinque mesi dopo quell’intervento di Cook, l’Irlanda, preoccupata dal rischio di pesanti sanzioni europee, cede alle pressioni internazionali e annuncia un giro di vite sulle società-satellite delle muntinazinali, come le filiali di Apple. Fin qui è cronaca, conosciuta. Quello che non si sapeva, e ora è documentato dai Paradise Papers, è la contromossa studiata dal produttore di iPhone.

Ecco quindi che uno dei maggiori studi legali americani, Baker McKenzie, su incarico di Cupertino, si rivolge proprio a Appleby. Che riceve un questionario spedito via e-mail nel marzo 2014 da Baker McKenzie. Dentro ci sono 14 domande, una su tutte è fondamentale, e cioè se «conferma che una società irlandese può svolgere attività di gestione…senza essere soggetta a tassazione nella sua giurisdizione».

Ma c’è un altro quesito fiscale molto delicato, perché, come riassume l'inchiesta di Bowers, «Apple chiede assicurazioni sul fatto che il clima politico locale rimanga amichevole»: «Ci sono sviluppi dai quali si deduce che la legge possa mutare in modo sfavorevole nel prevedibile futuro?».
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Alla fine, la scelta: l'isola di Jersey diventerà gradualmente, in modo ibrido, una delle nuove location di Apple, che in pratica potrà così replicare la struttura fiscale irlandese, con cui ha accumulato 252 miliardi di dollari sui profitti non americani. Montagne di soldi fatti in altri paesi usando stragegie di elusione fiscale messe a punto, per Apple come per altre multinazionali, da un’élite di consulenti in materia di offshore.

Ora, mentre L'Unione Europea progetta una web tax, la Casa Bianca e il parlamento americano dominato dai repubblicani pianificano di tagliare le imposte federali sulle società abbassando l’aliquota dal 35 al 20 per cento.

Con l’obiettivo, secondo il presidente Donald Trump, di consentire alle multinazionali di riportare a casa 2.600 miliardi di dollari stipati in filiali offshore delle multinazionali. Una cifra che basterebbe a pagare l'intero debito pubblico italiano.
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Il portavoce di Apple, a cui è stata inviata una lunga lista di domande, si è limitato a rispondere che la società aveva informato le autorità americane, irlandesi e la commissione europea sulla riorganizzazione in corso alla fine del 2014: «Le modifiche che abbiamo realizzato non riducono i nostri impegni fiscali in qualunque paese», assicura. E aggiunge: «Apple osserva le leggi e, se il sistema cambia, lo rispetta. Noi sosteniamo con vigore gli sforzi della comunità globale verso una riforma fiscale internazionale e per un sistema più semplice. E continueremo ad essere favorevoli».