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Inchieste
marzo, 2017

Così il calcio italiano ha toccato il fondo

Fondi offshore. Soldi fantasma. Incroci con la criminalità. Ecco come il nostro campionato è sprofondato. Diventando sempre più lo specchio di una nazione senza anticorpi

Il calcio in Italia è una branca delle neuroscienze. Closing sempre aperti. Presidenti proprietari per conto terzi. Stadi che si fanno, o forse no. Ultras e ’ndranghetisti uniti nella lotta. Giustizia sportiva che vorrebbe battersi contro il crimine organizzato ma non riesce a punire gli ululati razzisti negli stadi. E naturalmente una classe dirigente rissosa, cialtronesca, avida di guadagno immediato, incollata alla poltrona e ubriaca di popolarità.

Ogni somiglianza con la cosiddetta classe politica vera e propria è puramente volontaria. Il pallone continua a essere lo specchio di una nazione senza anticorpi e non esiste riflesso più fedele. L’unico vantaggio del calcio rispetto alla politica è che riesce ancora, a tratti, a essere divertente.

Come al cinema, lo spettatore può dire: è solo un film. E se invece è un documentario neorealista, l’importante è che faccia spettacolo.

Qui Milanello
Chi può pensare che il Milan valga un po’ più di 1 miliardo di euro fra prezzo d’acquisto, debiti da coprire e 350 milioni di euro da spendere in calciomercato?

Un nome sicuro c’è: Silvio Berlusconi. È lui il perno di una trattativa che ha portato nelle casse della Fininvest 300 milioni di euro in quattro tranche (15, 85 e due volte 100 milioni).

Intorno al presidente più longevo della serie A con 31 anni da titolare (febbraio 1986), ruota un cast che sembra uscito dai titoli di coda di “Dalla Cina con furore”: Yonghong Li, Chen Huashan, Chiam Tat Yiu e Ren Yubing, unica donna del gruppo.

In precedenza sono apparsi sullo schermo Bee Taechaubol, tailandese, e il vicepresidente della camera di commercio italo-cinese Fu Yixyang detto Gianni, che fatica ad amministrare la Consulmarketing (350 licenziamenti annunciati), figurarsi come poteva reggere un club di calcio che, fra stipendi e altre piccole spese, brucia circa 12 milioni di euro al mese.

Il closing più lungo del mondo, per parafrasare lo scrittore-calciatore Osvaldo Soriano, è un film che ha davvero molto in comune con le pellicole di Hong Kong. Bisogna essere predisposti con la fantasia ad accettare le piroette antigravitazionali dei duelli kung-fu. La finanza sa essere altrettanto irrealistica.

L’ultima rata da 100 milioni è stata passata al setaccio secondo le norme dell’antiriciclaggio. Sarà stato così anche con le precedenti. Quindi, fino a prova contraria, i nuovi azionisti del Milan esistono davvero.
Una spiegazione razionale al loro comportamento delirante non starebbe tanto nelle restrizioni sull’esportazione dei capitali decise da Pechino quanto nell’ipotesi che gli acquirenti si siano accorti in corso di pagamento dell’ipervalutazione del club rossonero, escluso dalla lotta per lo scudetto e per la qualificazione in Champions league dalla stagione 2013-2014.

A quel punto, i cinesi avrebbero tentato di temporeggiare, magari nella speranza di ottenere uno sconto. La Fininvest, bisognosa di denaro per controbattere la scalata di Vincent Bolloré a Mediaset, non si è mossa dal prezzo concordato. Così gli acquirenti si sono trovati di fronte al dilemma del giocatore d’azzardo in cattiva serata: alzarsi dal tavolo e accettare la perdita o continuare a chiedere carta nella speranza di rifarsi ma con il rischio concreto di rovinarsi.

A sostegno di questa tesi c’è il fattore emotivo che spesso ha colpito gli imprenditori del calcio a ogni latitudine del globo. I mao-capitalisti del Regno di Mezzo, che sanno essere negoziatori spietati, con il football hanno già dato prova di sbandamento. Negli ultimi mesi hanno noleggiato a prezzi folli attempati centravanti sudamericani ed europei, con l’azzurro Graziano Pellè a quota 15 milioni di euro netti l’anno. Il Milan rientrerebbe in questa patologia, sempre fino a prova contraria. Ma la prova contraria è, in sostanza, impossibile da trovare.

I quotisti del fondo di investimento estero che, alla fine, dovrebbe intestarsi la maggioranza del Milan per consentire alla controllante Fininvest di deconsolidare perdite e debiti rossoneri dal bilancio, sono protetti dall’anonimato come è prassi della finanza internazionale e da una barriera a tre strati.

I flussi di denaro che arrivano nelle casse del Biscione partono da conti correnti delle isole Cayman, sono appoggiati su un conto di tesoreria delle British Virgin Islands (la Willy Shine di Tortola) e vengono versati a una società di Hong Kong (Rossoneri sport investment ltd). Alla fine del negoziato, il Milan finirebbe sotto il controllo di una finanziaria lussemburghese annunciata mesi fa ma non ancora costituita.

Per vedere chi è dietro questa struttura, del resto simile a quella imbastita quando Eric Thohir ha acquisito l’Inter da Massimo Moratti, ci vorrebbero decenni di rogatorie internazionali, se non secoli. Nessun ufficio giudiziario ha così tanto tempo a disposizione e in ogni caso il risultato non sarebbe garantito. Nella sintesi di un magistrato esperto in materia: «La lotta al riciclaggio è virtuale».

In altre parole, nel match infinito tra la finanza e i tre poteri dello Stato secondo Montesquieu, il denaro corre come l’ala rossonera Deulofeu. La giustizia, al massimo, come Thiago Motta.

Lo scenario prossimo venturo è che lo schema Inter-Milan venga replicato con varianti in altri club di serie A.
Si è appena visto con il Palermo di Maurizio Zamparini, ceduto al fondo Integritas capital rappresentato da un giovane di qualche notorietà televisiva, il tatuatissimo Paul Baccaglini.

Integritas è un nome diffuso fra le società finanziarie. Nessuna di queste ha finora confermato un interesse per il club siciliano, impegnato nella lotta per non retrocedere in serie B.

Se passerà l’operazione Integritas-Palermo, valutata nell’ordine di 200 milioni di euro, è prevedibile una moltiplicazione di transazioni dalle vecchie proprietà a proprietà sempre meno trasparenti. Ogni volta, l’acquirente avrà una biografia imprenditoriale costruita in modo più o meno verosimile, come accadeva ai tempi dei furbetti del quartierino, gli immobiliaristi rampanti di quindici anni fa, spesso venuti dal nulla, quasi sempre protagonisti di avventure finite con fallimenti o bancarotte.

Un passo avanti lo ha già fatto un anno fa Gianpaolo Pozzo, multiproprietario di club europei come Udinese e Watford. Dopo avere ceduto il Granada ai cinesi di Desports per 37 milioni di euro, il secondo presidente più longevo della serie A dopo Berlusconi starebbe studiando di acquistare l’Oud Heverlee Leuven, club della serie B belga, proprio insieme a un gruppo di investitori cinesi.

L’ombra della ’ndrangheta
Il calcio, non solo in Italia, ha sempre avuto rapporti turbolenti con il potere giudiziario. Ma per la prima volta nel campionato di serie A in corso è entrato in campo lo spettro dell’organizzazione criminale più potente del mondo.

La ’ndrangheta ha spesso investito nel calcio dilettantistico come sistema aggiuntivo per ottenere consenso e controllo del territorio. La tradizione parte dagli anni Settanta, con la Gioiese gestita dal clan Piromalli, ed è continuata con l’infiltrazione del clan Aquino di Marina di Gioiosa Ionica nella squadra locale.

Oggi la mafia calabrese avrebbe fatto il salto di qualità penetrando fra gli ultras della massima serie e partecipando a una sorta di racket dei biglietti.

All’ordine del giorno della giustizia sportiva e della Commissione parlamentare antimafia sono finiti i presunti legami fra l’altrettanto presunto boss Rocco Dominello di Rosarno e il presidente della Juventus Andrea Agnelli.
Andrea Agnelli

Al momento la Direzione distrettuale antimafia di Torino non ha preso provvedimenti nei confronti di Agnelli, che non è nemmeno indagato e smentisce gli incontri con Dominello. Ad aprire l’inchiesta sportiva è stato il nuovo capo della procura federale del calcio Giuseppe Pecoraro, che ha sostituito Stefano Palazzi sette mesi fa.

Pecoraro, spinto al vertice della Procura della Figc dal presidente laziale Claudio Lotito, è già apparso nelle cronache sportivo-giudiziarie poco meno di tre anni fa quando era prefetto nella capitale. Il 3 maggio 2014 durante la finale di Coppa Italia Fiorentina-Napoli allo stadio Olimpico si tenne “l’interlocuzione” (termine dello stesso Pecoraro) fra le forze dell’ordine e un gruppo di gentlemen agli ordini di Genny “a carogna” De Tommaso, capo del tifo partenopeo che riuscì a imporre le sue condizioni per consentire di giocare il match.

Passato dall’altra parte del banco, il nuovo grande inquisitore del pallone si sta mostrando inflessibile con il potere calcistico italiano per definizione, la Juventus, che non è in rapporti idilliaci con Lotito.

In effetti, è un’inflessibilità a corrente alternata. Mentre Agnelli è chiamato a difendersi, la giustizia sportiva si è tenuta fuori dalle vicende giudiziarie dei fratelli Vrenna, i proprietari del Crotone accusati di intestazione fittizia di beni riferibili alla ’ndrangheta. Un garantismo premiato dalla sentenza del tribunale di Catanzaro che alla fine di febbraio ha assolto i Vrenna dall’accusa.

Per adesso non si ha notizia di interventi della giustizia sportiva in un’altra vicenda di tifo organizzato. È il caso degli ultras dell’Atalanta, colpiti da un’operazione della magistratura bergamasca che procede per traffico di droga, rapine e violenze negli stadi. Fra gli indagati ci sono un vecchio capo del tifo bergamasco come Claudio Galimberti, già coinvolto in inchieste precedenti, e Francesco Buonanno, figlio del procuratore della Repubblica di Brescia.

Si dirà che la giustizia sportiva non ha i mezzi né i poteri per esercitare l’azione penale. Ma anche nelle vicende legate al campionato, dalle scommesse alle partite truccate, la sensazione è che l’indulgenza regni sovrana.
Nel caso degli ululati razzisti rivolti al nazionale tedesco Antonio Rüdiger, difensore dell’As Roma, durante l’andata del derby di Coppa Italia (1 marzo 2017), la Ss Lazio è stata assolta dal giudice sportivo Gerardo Mastrandrea perché non era stato possibile determinare in che percentuale gli spettatori laziali avessero ululato contro il calciatore romanista prima che l’arbitro chiedesse ai dirigenti laziali di intervenire con un annuncio via altoparlante.

Essendo il calcio lo sport fazioso e dietrologico per eccellenza, si segnalano a titolo di cronaca i rapporti spesso perturbati fra Lotito, da una parte, e dall’altra la dirigenza romanista, in particolare con il direttore generale giallorosso, Mauro Baldissoni, spesso schierato con Agnelli.

Anche la nomina di Mastrandrea, che ha sostituito all’inizio di questa stagione calcistica Gianpaolo Tosel, è stata appoggiata da Lotito. Mastrandrea, capufficio legislativo del ministero delle infrastrutture con Altero Matteoli, Corrado Passera e Maurizio Lupi, è un ex magistrato del Tar passato a consigliere di Stato. È proprio fra le sue amicizie nella giustizia amministrativa che, secondo i detrattori, il presidente laziale fonderebbe un potere altrimenti difficile da giustificare.

Di certo, è un potere che Lotito non intende abbandonare. In Federcalcio è stato rieletto il suo protégé Claudio Tavecchio. E in Lega di serie A si discute ancora se confermare Maurizio Beretta, che i maligni hanno ribattezzato “pronto, Claudio” per la frequenza dei suoi contatti telefonici con il proprietario della Lazio.

Statuti, diritti e paracadute
Ma il vero tema è il nuovo statuto della Lega di A, un palcoscenico di narcisismi paralizzato a livello decisionale dalla necessità di votare con maggioranze bulgare: due terzi (14 squadre su 20) per le decisioni ordinarie e tre quarti per le straordinarie (15 squadre su 20).

La Lega è alla vigilia del rinnovo del contratto sui diritti televisivi con i network (Sky, Mediaset, Rai, più le piattaforme estere e digitali). Il panorama è molto diverso rispetto al precedente contratto, quando l’advisor della Lega (Infront) non era ancora stato comprato dai cinesi di Wanda e Marco Bogarelli gestiva il negoziato. L’altro tema da riformare è quello del cosiddetto paracadute, ossia la dote che la Lega di A riconosce ai club retrocessi e che, secondo molti, è troppo alta.

L’idea, a parole condivisa da tutti i presidenti, è di dare alla Lega quella struttura manageriale che caratterizza le maggiori realtà europee, tutte avanti o in corsia di sorpasso rispetto al campionato italiano. Il nuovo statuto sarebbe lo strumento per fare il salto di qualità.
Claudio Lotito

Lotito ha preparato una bozza in proprio. Una seconda proposta, più elaborata, è stata predisposta da un gruppo di legali delle sei grandi (Juventus, Inter, Roma, Milan, Fiorentina, Napoli) ed è stato consegnato alle 13 piccole.

Fra i temi ci sono la trasformazione della Lega da associazione non riconosciuta in associazione riconosciuta, con limitazioni nelle responsabilità dei soci che gestiscono un budget da piccola impresa, se si guarda alle attività proprie (8 milioni di euro), ma in effetti muovono oltre 1 miliardo di euro all’anno, se si considerano i diritti.
Il cambio di passo dovrebbe venire dalla governance fondata su un presidente di rappresentanza affiancato da un amministratore delegato esterno, reclutato attraverso una società di head-hunting e responsabile del business, e da un consigliere delegato nominato all’interno del consiglio di Lega, incaricato di organizzare il campionato e gli altri eventi sportivi della Lega di serie A.

La bozza del nuovo statuto è stata spedita alle 13 piccole società alla fine di febbraio. Per adesso, nessuna risposta e non è un bel segnale. Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, non gradisce che le elezioni in Lega vadano così in là e ha chiesto formalmente ai presidenti di darsi una mossa in tempi brevissimi.
Chi mira a mantenere lo status quo ha gioco facile a fare orecchie da mercante: prima lo statuto o prima il nuovo presidente?

Per dirla alla Lotito, tertium datur. È il commissariamento della Lega su disposizione del binomio Coni-Figc. In segreto, per molti club sarebbe una vis grata puellis, un atto di forza che solleverebbe alcuni presidenti dall’atto di schierarsi e, dunque, di crearsi inimicizie. Del resto, il commissariamento della Lega c’è già stato nel 2009, per un breve periodo prima dell’inizio dell’era Beretta.

Sarebbe una brutta figura in più ma le questioni di immagine sono sport per signorine.

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