Le canne in cortile. Il ruolo dei prof. Le ispezioni della polizia con i cani. L’Espresso ha chiesto agli studenti di parlarne. Ecco cosa ci hanno detto. Fino al loro parere sulla legalizzazione

Canne, minori, controlli. A Ischia, Caserta, Verona, Ferrara, gli agenti entrano a scuola: cani, zaini aperti, studenti in fila indiana. Su 31mila segnalazioni “ex art. 75” - possesso personale di stupefacenti - oltre 10 mila riguardano adolescenti fra i 14 e i 20 anni. Le famiglie hanno paura. I media ne parlano. Il governo rafforza le misure. E le ispezioni aumentano. Anche in classe. «Il problema è che nessuno ci ascolta», dice Saverio, 17 anni, in quarta superiore a San Giovanni Rotondo.

Ascoltare i ragazzi. L’Espresso ha provato a farlo, intervistandoli e avviando un dibattito su ScuolaZoo, una community online che riunisce giovanissimi di tutta Italia, fra cui 200 rappresentati di istituto. Oltre mille adolescenti hanno risposto in tre giorni a un questionario su Facebook e Instagram. Al di là dei pezzi rap («Ho la ganja che puzza di stanza, ah scusa / La stanza che puzza di ganja, annusa», Ghali) o delle hit estive («Io non fumo canne. Sono anche astemio», Rovazzi), sono loro qui a raccontarsi così divisi a metà fra chi è convinto che sia un crimine possedere anche pochi grammi di erba e chi al contrario considera la penalizzazione delle droghe leggere «una legge sbagliata».

Bisognerebbe legalizzarle? Il 44,3 per cento per cento si dichiara contrario, favorevole il 31 per cento, oltre a chi ammette di non essere abbastanza informato (24,56 per cento). Conseguenze? I controlli in classe, capitati al 56 per cento di loro, con poche ribellioni. Nelle risposte ricevute (al link su due gruppi Facebook e su Instagram) c’è una spaccatura netta, al 50 per cento, fra chi ritiene sia compito della polizia vigilare sugli istituti e chi invece crede che dovrebbero farlo solo preside e insegnanti. Fra chi vede come positiva una maggiore presenza e chi la considererebbe invece sbagliata.
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È passato poco più di un mese dal suicidio del sedicenne di Lavagna, «e quello che è successo dovrebbe farci aprire gli occhi», riflette Saverio. La morte di quel coetaneo lo ha scosso, come ha scosso il Paese. Sul ruolo degli adulti. Sui silenzi, la realtà e le conseguenze del contrasto allo spaccio. «Servirebbe più dialogo», prova a rispondere Saverio: «Più attenzione psicologica, in questi casi». E nei cortili dove uno spinello o un cilum passano di mano? «La scuola io la considero una casa, ci passo più di cinque ore ogni giorno. Non si può marchiare un minorenne per una canna. Soprattutto non dove si sente a casa». «È giusto venga chiamata la polizia, perché è illegale fumare marijuana», continua: «Ma bisogna considerare sempre le reazioni possibili, per non rovinare la vita di un ragazzo solo perché ha cinque grammi in tasca».

Un’attenzione diversa. È una richiesta di molti suoi coetanei. «Anche se non fumo, a me queste ispezioni mettono ansia», racconta Serena, quarto anno di un liceo di Legnano (i nomi degli intervistati sono stati sostituiti per proteggere la loro privacy), che vuole iscriversi a Medicina e dice che l’ultima cosa che bisognerebbe fare, secondo lei:«è colpevolizzare degli adolescenti: dal punto di vista della legge gli agenti fanno bene, però la scuola è un luogo protetto, per i ragazzi, il nostro primo approccio alla società. Non si può spaventare un sedicenne davanti ai compagni». Andrei è nato in Romania, ora fa il rappresentante d’istituto, vuole diventare ingegnere e al contrario pensa: «A scuola o in stazione è uguale, il consumo è reato e va punito. I finanzieri poi arrivano dopo aver avvisato la dirigente».
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Nell’ottobre 1988 L’Espresso pubblicò in copertina un’inchiesta sulla “Droga in classe”. All’epoca l’emergenza erano i morti per overdose e le statistiche sui ragazzi scivolati nell’eroina. Intervistato dal nostro settimanale, l’allora ministro dell’Istruzione Giovanni Galloni, politico dc amico di Moro e Dossetti, non aveva dubbi: «Il tentativo di coinvolgere nell’uso di stupefacenti fasce d’età sempre più giovani è una realtà che non si può ignorare. Ben venga quindi una forma di collaborazione tra scuola e forze di polizia», spiegava: «Ovviamente però il “fuori” (agente in borghese o no), non deve assolutamente contaminare il “dentro”, ossia l’opera educativa della scuola che proprio perché tale non può in nessun modo consentire l’instaurarsi di metodi repressivi». Il fuori, il dentro.

Nel 2004 il preside di un liceo di Rho venne condannato per favoreggiamento e agevolazione dolosa dello spaccio. «Ci vogliono costringere a fare gli sceriffi», raccontava all’Espresso: «Un ragazzo di 16 anni deve poter parlare con i propri professori e non avere paura». La condanna fu annullata in Cassazione. Ora nella cronaca non emergono ribellioni. Né fra i presidi, né fra gli studenti. Anche fra chi pensa che «ci siano modi più intelligenti per sostenere questa lotta contro il crimine rispetto all’indagare ragazzini delle superiori», come commenta uno di loro nel sondaggio, o chi propone «corpi speciali che dovrebbero stare attenti alle scuole. Non polizia in divisa».

«Più che a denunciare un compagno che ha 10 grammi addosso penserei a capire perché lo fa. Senza paternalismi», sostiene ad esempio Giovanni, di un Itis a San Severo, Foggia: «Per alcuni è una fuga a problemi seri. Per molti però è ormai una moda, normale». Gli agenti? «Fanno il loro mestiere, è pur sempre un uso illegale e dannoso. In un territorio come il nostro però le emergenze sono altre. Su quelle andrebbero concentrate le forze». Marco, di Bologna: «Da noi la polizia viene due volte l’anno. Ogni volta è un giorno in cui il clima a scuola è teso. Ma fanno bene, e ci parlano sempre delle nostre responsabilità. D’altronde le “zaffate” in cortile le sentiamo. C’è la tossica di quarta che ogni tanto viene beccata e piange». Il suo è un giudizio duro, netto.

«Sono arrivati in classe, il cane si è fermato su due zaini attaccati, il mio e quello del mio vicino di banco. Io ero tranquillo, convinto fosse per via dei cuccioli che ho a casa, visto che non fumo», racconta un coetaneo: «Ci hanno perquisito dalla testa ai piedi - zaino, astuccio, giubbotto, scarpe, pantaloni, felpe. Sono rimasto in mutande. Alla fine della perquisizione ci hanno fatto firmare un foglio con la docente, hanno chiesto i dati e il numero di telefono dei genitori e ci hanno detto che probabilmente andranno anche in casa. Gli agenti sono stati comprensivi. A darmi fastidio è stato che la prof al rientro in classe ci ha detto “Bravi, bravi, complimenti”, senza sapere niente». Marchiati?

Si avvicina poi all’orizzonte dei prossimi adulti anche il dibattito politico sulla legalizzazione. Come dimostra la divisione fra chi si dice nettamente contrario, chi non sa e chi invece ne discute a favore. Il raggio delle loro opinioni va così da chi grida che «ci sono persone che si bruciano la vita con queste droghe da quanto ne fanno uso» a chi spiega come «per i minorenni dovrebbe essere sempre un crimine, per i maggiorenni la questione è opinabile», a chi commenta: «Anche l’alcool e le sigarette sono “droghe”, ma legali». «È scientificamente provato che la marijuana, se non ne abusi, non provoca effetti collaterali dannosi per la salute. Credo che quella della non legalizzazione sia una delle cose più insensate esistenti in Italia», commenta un altro.

«Ognuno della sua vita fa ciò che vuole e lo Stato dovrebbe sfruttare queste opportunità per guadagnare», scrive un altro ancora. Andrea studia a Maglie, in Puglia. E dice: «La legalizzazione avrebbe aspetti positivi, come le verifiche sulle sostanze, che oggi sono mescolate a ogni tipo di schifezza, e la sottrazione di profitti alla criminalità. Allo stesso tempo però diventerebbe di fatto, in negativo, un incentivo di Stato a fumare». «Lo vedo con le macchinette», spiega: «Qui giocano tutti tantissimo». Alla sua età? «A qualsiasi età. I bar che non funzionavano si sono trasformati in sale slot e molti dei miei coetanei ci vanno a giocare. Lo Stato ci specula». Ma il gioco d’azzardo, quello è legale.

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