Ecco le accuse più importanti formalizzate dalla procura generale di Milano con la chiusura dell'indagine-bis sull'esposizione universale del 2015

L’atto falso confezionato a casa del sindaco. Una lunga catena di anomalie, pasticci legali e ritardi disastrosi nelle gare d'appalto. Pressioni politiche su tutto, perfino per pilotare le forniture di alberi facendone triplicare i prezzi. E la scoperta che l’appalto più ricco dell'Expo è stato truccato quando era ancora nella culla. Dalla stessa grande impresa al centro delle maxi-corruzioni del Mose di Venezia.

Ecco le accuse più importanti formalizzate dalla procura generale di Milano con la chiusura dell'indagine-bis sull'esposizione universale del 2015. Sul piano politico, ora Milano rischia di ritrovarsi con un sindaco azzoppato da un’inchiesta giudiziaria più pesante del previsto. Dopo le prime indiscrezioni sui risultati dell'inchiesta bis, anticipati due settimane fa da l'Espresso, oggi Giuseppe Sala si è detto «amareggiato», ha respinto le accuse che gli vengono addebitate personalmente (falso e turbativa d'asta) e ha chiarito che non si dimetterà ma continuerà a lavorare per la città.

Sei mesi fa, quando è ripartita da zero dopo velenosi scontri fra alti magistrati, agli stessi inquirenti sembrava difficile che l’indagine-bis sull’esposizione universale del 2015 potesse produrre risultati significativi. Invece la procura generale di Milano, con la squadra anti-corruzione della Guardia di finanza, ha scoperto nuovi reati, che ora colpiscono anche l’appalto fondamentale da 260 milioni di euro della cosiddetta piastra. E ha trovato nuove prove. Anche a carico di Giuseppe Sala, il manager che nel frattempo è diventato sindaco di Milano, con il Pd di Matteo Renzi, proprio sull’onda del successo dell’Expo.

La prima inchiesta, segnata dalle furibonde liti tra l’allora procuratore Edmondo Bruti Liberati (ora pensionato) e il suo vice Alfredo Robledo (poi trasferito e indagato), si era chiusa l’anno scorso con mille polemiche e nessun risultato giudiziario. Gli stessi pm che avevano indagato per due anni con Robledo hanno finito per chiedere l’archiviazione. Ma alla fine del 2016 il gip Andrea Ghinetti ha respinto la proposta di prosciogliere tutti. Mentre la procura generale, con il suo magistrato più esperto, Felice Isnardi, ha tolto il fascicolo ai colleghi (con un raro provvedimento di “avocazione”) e ha aperto un’indagine-bis, con due nuovi indagati, tra cui il sindaco Sala.

Accusato per la prima volta di falso in atto pubblico, per aver firmato una nomina risultata retrodatata di 13 giorni. Non per soldi, né per favorire imprese amiche, come riconosce la stessa accusa, ma solo per chiudere in tempo i lavori dell’Expo, che erano in gravissimo ritardo (e non per colpa sua).

Questa indagine-bis si è conclusa ai primi di giugno, con la fine dell’ultima tornata di interrogatori e la raccolta di molti nuovi elementi. Una svolta che appariva improbabile, visto che, nel rimpallo tra un giudice e l’altro, i pubblici ministeri avevano dovuto depositare alle difese tutti gli atti fino ad allora segreti, comprese le intercettazioni. Oggi invece la procura generale ha notificato il formale avviso di conclusione delle indagini, che è la premessa tecnica della richiesta di rinvio a giudizio. Questo significa che, se il giudice competente convaliderà le accuse, Milano si ritroverà governata da un sindaco imputato di falso e turbativa d'asta.

Mentre la Mantovani spa, una delle più importanti imprese italiane, appena uscita dallo scandalo miliardario del Mose di Venezia, potrebbe rischiare una memorabile stangata giudiziaria in base alla legge 231, approvata nel 2000 per punire, oltre ai dirigenti, direttamente le aziende inquinate da corruzioni sistematiche.
Il falso in casa del sindaco

Beppe Sala è sotto accusa prima di tutto per aver firmato un atto fondamentale dell’Expo, che sulla carta è datato 17 maggio 2012, ma in realtà risulta scritto al computer il successivo 30 maggio: la nomina dei commissari della gara d’appalto per la piastra, la struttura di base per tutti i padiglioni espositivi. La partita giudiziaria si gioca su una questione tecnica. Per provare il reato, la pubblica accusa deve dimostrare il dolo, cioè la volontà consapevole di inserire nell’atto pubblico un contenuto falso, in questo caso la data non vera. È una regola generale che impedisce di punire con il carcere gli errori involontari: altrimenti le procure dovrebbero incriminare tutti i funzionari e gli stessi giudici che sbaglino a trascrivere qualsiasi nome, data o numero in una sentenza. I pm della prima indagine si erano convinti della buona fede del sindaco di Milano dopo aver verificato, in particolare, che l’atto retrodatato non fu preparato da lui né dai suoi tecnici negli uffici di Expo, ma dalla squadra rivale di Infrastrutture lombarde: la società regionale, guidata dall’ingegner Antonio Rognoni (poi arrestato per altre corruzioni e appalti truccati), che è stata la cabina di regia delle grandi opere decise dai fedelissimi dell’allora governatore Roberto Formigoni. Un’agenzia dominata dai ciellini, entrata in Expo in aperta polemica con lo staff di Sala.

Ai tempi d’oro del centrodestra lombardo, proprio la faida di potere tra il comune di Letizia Moratti e la regione di Formigoni aveva paralizzato i lavori dell’esposizione, avviati solo nel 2012. Di qui il dilemma giudiziario: in quella situazione, Sala sapeva di firmare un falso fabbricato dai nemici interni? O è stata la squadra di Rognoni a infilargli quella carta avvelenata in un mazzo di atti innocui? Prima di accusare Sala di falso, gli inquirenti dell’inchiesta-bis hanno riascoltato gli audio integrali di tutte le intercettazioni.

Il sipario si apre alle sei del pomeriggio del 15 maggio 2012. Nella sede di Expo spa, l’amministratore delegato Giuseppe Sala firma la nomina dei cinque arbitri (in gergo, commissari) della gara d’appalto per la piastra: il presidente Angelo Paris (berlusconiano, poi condannato per altre corruzioni) e gli ingegneri Antonio Acerbo, Susanna Marinoni, Alessandro Molaioni e Ciro Mariani. In quell’atto non c’è traccia di commissari di riserva o supplenti. E di possibili sostituti dei cinque titolari non si parla nemmeno nei tanti colloqui che precedono la nomina, tutti registrati.

Il 18 maggio la commissione tiene la prima seduta: verifica l’integrità dei plichi e apre le buste con le offerte delle nove cordate di imprese concorrenti. La sera del 21 maggio il commissario Molaioni (intercettato, ma non indagato) confida alla moglie un grosso guaio: i legali di Infrastrutture, in una riunione riservata, gli hanno comunicato «la questione dell’incompatibilità». L’ingegnere non avrebbe potuto arbitrare quella gara «perché era già stato nominato responsabile dei lavori proprio della piastra». La consorte commenta preoccupata che «c’è il rischio di invalidare l’intera procedura». Molaioni lo sa e avverte: «Lo avevo detto agli avvocati di Infrastrutture, saranno loro a studiarsi il problema».

Il giorno dopo, un’indagata di Infrastrutture, l’avvocata Carmen Leo, spiega a una collaboratrice che «è incompatibile anche Acerbo». Per questo «Rognoni ha fatto un cazziatone» al suo collega Pierpaolo Perez, «che era abbacchiatissimo e si è preso lui la colpa di aver scelto quei commissari». L’avvocata aggiunge desolata che il grande capo di Infrastrutture, soprannominato «il satrapo», vorrebbe comunque «portare avanti Acerbo», anche se «in Expo è visto come un trafficone», mentre Carlo Chiesa, il braccio destro di Sala, «è considerato il baluardo della legalità».

Il sospetto non era infondato: Acerbo è stato poi arrestato e condannato per altre corruzioni. Legate sempre all’Expo: le tangenti pagate dal gruppo Maltauro e altre aziende, scoperte dai pm di Bruti Liberati tra il 2014 e 2015, durante lo scontro con Robledo.

Dentro Infrastrutture la questione dei due incompatibili crea «un clima da funerale». I collaboratori di Rognoni confessano al telefono di sentirsi «usati», ma si arrovellano per trovare una soluzione: i lavori sono «in ritardissimo», non c’è più il tempo di rifare la gara per la piastra, altrimenti «salta tutta l’Expo» e Milano fa «una figuraccia mondiale».

Il 30 maggio gli avvocati di Infrastrutture hanno l’idea vincente: approvare di corsa un nuovo atto di nomina dei commissari che «annulla e sostituisce» il precedente. In pratica «si nominano due supplenti, che sostituiscono i due incompatibili», ovviamente senza spiegare nell’atto le vere ragioni del cambio. Però, dicono gli intercettati, «servono le deroghe del commissario», cioè i poteri speciali concessi a Sala. E non si può varare un atto successivo, che «integra» il precedente: la commissione della piastra si è già riunita il 18 maggio, per cui bisogna fare finta che «i supplenti siano stati nominati insieme ai commissari titolari», prima di quella data. Alla fine l’avvocato Perez comunica che finalmente i capi di Expo hanno deciso: «Si va con “annulla e sostituisce”». La collega teme di finire nei guai e gli chiede: «Ma chi lo ha deciso?». Risposta di Perez: «I triumviri». Cioè Sala e i suoi due vice.

Sempre il 30 maggio i tecnici di Infrastrutture preparano al computer il nuovo atto di nomina, con la data, evidentemente falsa, del 17. Il documento, firmato personalmente da Sala, recita: «Premesso che in data 15 maggio 2012 l’amministratore delegato di Expo ha nominato la commissione giudicatrice (...) e che per mero errore materiale non è stata inserita in tale verbale la nomina dei supplenti, quali sostituti dei commissari effettivi in caso di qualsiasi impedimento (…) l’amministratore Giuseppe Sala determina di annullare il precedente provvedimento, che viene sostituito con la contestuale nuova nomina». A ruota arriva il nuovo atto, dove compaiono anche i due supplenti, sempre con la firma di Sala e la data del 17 maggio, anche se siamo già al 30. La Guardia di finanza conclude che «la retrodatazione dell’atto è palese» ed è «chiaro l’intento di evitare di dover annullare l’attività fin lì svolta e riprenderla dall’inizio: si riscontrano così i primi effetti del grave, incomprimibile ritardo nel cronoprogramma dell’Expo».

Secondo gli inquirenti, dunque, Sala non avrebbe approvato a sua insaputa un documento altrui: il 15 maggio aveva firmato l’atto vero e il 30 ha sottoscritto il doppio falso, con la data del 17, proprio per salvare il maxi-appalto da cui dipendeva l’Expo.

Le intercettazioni integrali, che nella prima indagine erano state solo riassunte, forniscono un altro indizio pesante: la nuova nomina, quella con la data falsa, è stata trasportata a casa di Sala, che sembra averla firmata appositamente, fuori dalla sede di lavoro e senza altre carte di mezzo. Fino a un’eventuale sentenza definitiva, beninteso, bisogna presumere che sia innocente: dopo la rituale notifica dell’accusa, il sindaco potrà anche chiedere di essere interrogato per dimostrare di aver firmato l’atto falso senza saperlo.

La trappola dei veneti
L’appalto-base della piastra, messo a gara per 272 milioni di euro, viene aggiudicato il 16 luglio 2012. A sorpresa, stravince la cordata guidata dalla Mantovani, con la cooperativa veneta Coveco e la romana Socostramo: sono le stesse aziende dello scandalo del Mose di Venezia, la colossale mangiatoia da oltre cento milioni di tangenti accertate (senza contare quelle prescritte). Nel 2012 però i veneti sono ancora immacolati. E qui va sottolineato che Sala non ha preso un soldo dalle imprese vincitrici, anzi non le conosce e chiede chi sono: «Ma che lavori sta facendo adesso la Mantovani?». «Il Mose a Venezia», risponde Chiesa. E Sala commenta, con scarse doti profetiche: «Chiarissimo, un bel biglietto da visita».

Rognoni invece la prende malissimo: le intercettazioni mostrano che la squadra di Infrastrutture brigava per far vincere la cordata di Gavio-Impregilo, super-raccomandata dal ciellino Paolo Alli, allora sottosegretario di Formigoni, oggi parlamentare.

Visto il risultato, l’inchiesta punta a capire se la cordata vincente abbia barato. Arrestato nel 2013 a Venezia, Piergiorgio Baita, il top manager della Mantovani, confessa anni di tangenti per il Mose, ma nella prima indagine a Milano nega qualsiasi trucco: giura che la sua cordata ha vinto regolarmente, solo perché ha proposto il prezzo più basso presentando l’offerta migliore per qualità tecniche. La Mantovani, in particolare, si è impegnata a costruire tutta la piastra per 165 milioni (di cui 16 non ribassabili per la sicurezza del cantiere) con uno sconto netto del 41,80 per cento. In quei giorni perfino i tecnici di Infrastrutture devono ammettere che «non è un’offerta anomala» ed è anche «la prima per punteggio tecnico».

Intanto Baita, intercettato, spiega che il suo inconfessabile obiettivo finale è di rialzare il prezzo con le varianti, sfruttando l’urgenza di finire la piastra. Sala lo intuisce subito, ma Chiesa gli spiega che non c’è niente da fare: «Lo sanno tutti che alla fine devono fare delle varianti, quindi per prendere il lavoro si sono tirati il collo. Ma se cerchiamo di escluderla come offerta anomala, siamo debolissimi, perché per legge non possiamo farlo». E Sala concorda: «Certo, certo».

La versione ufficiale di Baita entra in crisi solo con l’indagine-bis, grazie a una specie di registro, un foglietto d’archivio, trovato con la prima perquisizione milanese alla Mantovani. Anche in questo caso contano le date: il foglietto permette alla Guardia di finanza di risalire ai sub-contratti per la piastra, siglati dall’azienda veneta con i suoi fornitori. Il problema è che alcuni accordi risalgono a quando gli atti dell’Expo, in teoria, erano ancora segreti. Quindi è chiaro, almeno per l’accusa, che qualcuno ha passato in anticipo il progetto esecutivo alla Mantovani, che ha potuto così sbaragliare i concorrenti. Dunque l’azienda veneta avrebbe nascosto ai magistrati di aver truccato il maxi-appalto milanese perfino dopo le confessioni di Baita sul Mose e le solenni promesse di rientrare nella legalità.

Qui parte la fase finale dell’indagine bis, diretta a identificare la talpa che avrebbe passato le carte segrete all’impresa veneta. L’inchiesta avrebbe accertato che un funzionario di Expo, di grado non elevato, è stato colpito proprio in quel periodo da un improvviso benessere economico.
 
Di certo la scoperta che l’appalto base dell’Expo fu truccato da una soffiata, in un contesto di sospette tangenti, è la molla che ha spinto la procura generale a contestare al colosso veneto la violazione della 231. Una legge imposta dall’Europa che prevede pene pesantissime: se l’accusa fosse confermata dai giudici, la Mantovani rischierebbe una gamma di sanzioni che, nei casi più gravi, può arrivare al commissariamento e addirittura all’interdizione da tutti gli appalti pubblici.

Le nuove accuse sulla piastra mettono in secondo piano il capitolo della prima indagine che vedeva la Mantovani nel ruolo di vittima di presunte ritorsioni di Rognoni, che il suo stesso staff definiva «ricatti»: balzelli come il raddoppio delle garanzie assicurative, imposti da Infrastrutture per placare l’ira di Formigoni dopo l’imprevista sconfitta dei suoi beniamini di Impregilo.

Il sindaco di Milano è estraneo alle accuse sulle presunte soffiate della talpa a favore della Mantovani. Ma la sua fama di manager non ne esce benissimo: sull’appalto più ricco, i veneti gli avrebbero truccato la gara sotto il naso. L’indagine conferma inoltre che lo staff di Sala, all’inizio, progettava di opporsi alle prevedibili varianti con «una direzione lavori estremamente aggressiva». Ma poi l’urgenza di rispettare i tempi ha ammorbidito i controlli. E alla fine la Mantovani ha incassato circa 260 milioni, recuperando così quasi tutto il ribasso che aveva promesso.

Alberi a peso d’oro
L’atto finale dell’inchiesta, oltre ad alcune archiviazioni, contiene anche altre accuse. La più curiosa riguarda le seimila piante dell’Expo: la procura generale ipotizza una turbativa d'asta che coinvolge .anche il sindaco Sala. Stando all’indagine-bis, quell’appalto per il verde era stato confezionato su misura di un grosso vivaista lombardo, protetto dalla cerchia di Comunione e Liberazione. Al bando infatti ha risposto solo lui. Per evitare l’imbarazzo di una gara con un solo concorrente, lo staff di Infrastrutture ha resuscitato una seconda offerta, perdente, di un’impresa che in realtà aveva già rinunciato. Ma poi anche il vivaista vincente si è ritirato, perché non trovava prestiti per comprare tutte quelle piante in attesa dei soldi pubblici. Quindi gli alberi sono rientrati nell’appalto-base della Mantovani, da cui erano usciti rocambolescamente: erano infatti previsti nel bando iniziale, poi sono stati scorporati e quindi reinseriti nella piastra. Senza mai cambiare il prezzo. il costo previsto era d 4,3 milioni più Iva. Con un’anomalia assurda: nessuno ha indicato i tipi di alberi, ma solo il prezzo in blocco. E così li ha scelti la Mantovani. Che li ha pagati 1,7 milioni in tutto. E dall’Expo ha intascato quasi il triplo. Per i venditori, erano proprio gli alberi della vita.