I retroscena che rivelano come opera la rete terroristica che minaccia anche l’Italia
Lo stragista di Manchester. E dietro di lui una scala gerarchica di reclutatori, attivatori, istruttori all’uso di esplosivi, capicolonna e ideologi-predicatori del terrorismo jihadista. Capaci di trasmettere ordini di morte che passano anche dall’Italia.
Le indagini internazionali sui più sanguinosi attentati dell’Isis stanno cominciando a decifrare come funziona e da quali ingranaggi è composta la macchina dello stragismo globale, in grado di mettere in moto singoli terroristi dal Medioriente al Nordafrica, dall’Europa agli Stati Uniti. Sono inchieste che scottano, di cui si conoscono solo i primi risultati. Che fotografano una rete del terrore in grado di fare sistema: non lupi solitari, non attentatori improvvisati e scollegati, ma un branco di potenzali kamikaze nascosti in tutto l’Occidente, pronti ad essere attivati a distanza.
Sono queste scoperte investigative a spiegare, tra l’altro, perché due procuratori federali americani, con una squadra di agenti speciali dell’Fbi, a metà luglio sono piombati in Italia a interrogare un ragazzo di 28 anni, arrestato a Torino, per chiedergli tutto quello che sa sugli organizzatori della strage di Manchester. Una tra le più impressionanti carneficine rivendicate dall’Isis in Occidente: 22 morti e 116 feriti con un ordigno fatto esplodere da un kamikaze inglese, il 22 maggio scorso, tra la folla di adolescenti all’uscita dal concerto di una famosa cantante.
IL TORINESE, L'AMERIKANO E L'UOMO BOMBA Mouner El Aoual, detto Mido, nato in Marocco 28 anni fa, entrato in Italia nel 2008 senza permesso, accolto e allevato da un’ignara pensionata di Torino, è in carcere da quattro mesi come presunto sostenitore e progandista del cosiddetto Stato islamico. L’inchiesta su Mido è nata da un’intercettazione trasmessa nel 2016 dagli Stati Uniti. I poliziotti americani hanno scoperto che quel ragazzo italo-marocchino, all’insaputa di tutti gli amici e familiari, ha gestito per mesi un canale di comunicazione dell’Isis: una linea anonima e riservatissima, utilizzata per reclutare su Internet e radicalizzare migliaia di jihadisti. E per organizzare attentati.
Al centro delle indagini americane c’è un texano misterioso: si chiama Said Azzam Mohamad Rahim, discende da una famiglia giordana, ma è nato e cresciuto negli Stati Uniti. Un insospettabile cittadino americano, incriminato nel marzo scorso dalla procura di Dallas come presunto arruolatore dell’Isis. A Torino, mentre interrogavano Mido, gli stessi inquirenti americani hanno rivelato che quel jihadista texano oggi è sospettato di essere «uno degli organizzatori della strage di Manchester».
Le prove sono ancora segrete. Ma l’atto d’accusa già formalizzato a Dallas riporta una delle intercettazioni che lo chiamano in causa. È il 28 agosto 2016. La strage di Manchester è ancora lontana. Rahim apre una conversazione privata sul canale di messaggistica Zello. Solo cinque persone sono autorizzate a intervenire. Mido è uno di loro, ma resta sempre zitto. Il primo a parlare è un predicatore, chiamato con reverenza “sceicco”, che viene consultato perché abilitato a dettare la linea dell’Isis. Un giovane in linea ha urgenza di interromperlo e se ne scusa: «Sceicco, io abito a Manchester, in Gran Bretagna. Vivo tra non-musulmani, con loro ho trovato lavoro. È permesso ucciderli? È lecito ucciderli con una bomba?». [[ge:rep-locali:espresso:285290879]] Lo sceicco che parla a nome dell’Isis, verosimilmente dalla Siria, risponde con una frase estrapolata dal Corano: «Combatti i pagani tutti insieme». È il via libera religioso: la legittimazione di una strage. A questo punto interviene Rahim “l’amerikano”, con una lunga esortazione alla violenza che culmina con queste parole: «Che Dio ti benedica. Mi rivolgo al ragazzo di Manchester: ok, uccidili! Non mostrare pietà per i civili: vai e uccidi!». Il texano, come lo stesso Mido in altre conversazioni con jihadisti che stanno combattendo in Siria, ripete più volte il famigerato proclama dello “sceicco” siriano Mohamed Al Adnani, portavoce e portaordini del califfo iracheno Abu Bakr Al Bagdadi, che autorizza i seguaci dell’Isis a uccidere civili in Occidente con ogni mezzo.
L’atto d’accusa americano trascrive testualmente il comizio su Internet diffuso da Al Adnani il 21 settembre 2014, per mostrare che il jihadista texano usa le stesse parole: «Uccidete gli infedeli americani ed europei, compresi i cittadini dei paesi che sono entrati nella coalizione contro l’Isis. Uccideteli con ogni mezzo: spaccategli la testa, squartateli con un coltello, travolgeteli con la vostra auto, soffocateli, avvelenateli...». Al Adnani è stato ucciso il 30 agosto 2016 da un drone americano. Ma il suo ordine di morte continua a riprodursi su Internet.
Nel dialogo intercettato su Zello nessuno pronuncia il nome dell’aspirante terrorista inglese e tantomeno dello sceicco che lo manovra. Però si parla già di Manchester e di bomba. E gli inquirenti americani oggi si mostrano convinti che Mido, tuttora detenuto in Italia, possa custodire informazioni importanti su quella strage. Non come complice, ma come testimone: uno dei pochi che hanno potuto ascoltare in diretta le comunicazioni dell’Isis che pianificano gli attentati. Nell’interrogatorio a Torino, i magistrati statunitensi davano per certo il collegamento con la strage, ma non hanno chiarito se a ricevere dal texano e dallo sceicco l’ordine di uccidere fosse proprio l’esecutore dell’eccidio, Salman Abedi, 23 anni, nato a Manchester da genitori libici, o un altro terrorista della sua cellula. Di certo la caccia ai complici e ai mandanti ora porta in Libia, un paese nel caos che ha mille legami con l’Italia.
TERRORE DALLA LIBIA Il terrorista di Manchester, Salman Abedi, non era un lupo solitario. Per la strage al concerto, in Libia sono già stati arrestati suo padre Ramadan e suo fratello Hashem, che secondo le autorità di Tripoli ha confessato. Le indagini inglesi confermano che l’attentato era in preparazione da almeno un anno: Salman aveva aperto nel maggio 2016 un conto bancario, poi utilizzato solo per comprare il materiale per la bomba. Dunque il 28 agosto, quando viene intercettato il dialogo su Zello, la cellula terroristica è già attiva e cerca solo l’imprimatur dell’Isis.
Gli inquirenti americani continuano per mesi a intercettare quel canale di Internet, utilizzato (a diversi livelli di segretezza) da oltre diecimila aspiranti jihadisti, tutti protetti da profili anonimi. Il 16 dicembre 2016 Rahim, da Dallas, parla di «fratelli di fede che vivono in Turchia». Dice che devono giurare obbedienza all’Isis e colpire non solo i governanti, ma «anche i cittadini, in località turistiche, porti o night club...». La notte di Capodanno, a Istanbul, un terorrista kirghizo, che dopo l’arresto confesserà l’affiliazione all’Isis, uccide 39 innocenti in un night club, soprattutto turisti stranieri. A quel punto a Dallas scatta l’allarme rosso. Rahim è troppo pericoloso, le sue comunicazioni vanno interrotte d’urgenza. All’alba del 5 gennaio i poliziotti dell’Fbi lo perquisiscono e gli sequestrano tutti i computer , telefonini e archivi informatici. A caldo il texano nega tutto. Ma l’analisi dei computer lo inchioda. E due mesi dopo viene arrestato mentre cerca di partire in aereo per la Giordania, secondo l’accusa per entrare nel Califfato siriano-iracheno.
Le intercettazioni dell’Fbi, con le spaventose successioni temporali tra presunte autorizzazioni ed effettive esecuzioni di almeno due stragi, vengono trasmesse in Gran Bretagna, Turchia e in altri Paesi. Ma fotografano solo l’ultimo anello della catena del terrore: il presunto via libera agli esecutori. Sopra, c’è molto di peggio. Il terrorista di Manchester ha usato un ordigno fatto in casa, come succede in gran parte degli attentati jihadisti, ma il suo non era rudimentale, bensì preparato con tecniche da militari professionisti. Acquisite all’estero, in un covo jihadista: secondo le indagini, in Libia.
Le date del complotto sono eloquenti. Salman raggiunge il padre e il fratello in Libia a fine aprile. Il 17 maggio riparte in aereo per Manchester, dove il 22 si fa esplodere tra gli adolescenti al concerto, dopo aver fatto un bonifico e un’ultima telefonata al fratello Hashem, arrestato l’indomani, che ammette anche l’affiliazione all’Isis. Due giorni dopo finisce in carcere il padre, che nega tutto.
In quel viaggio cruciale in Libia, come ha rivelato il New York Times, il terrorista di Manchester ha incontrato diversi soggetti «operativi» dell’Isis. Contatti ed incontri avvenuti a Tripoli e nell’area di Sabrata. In questa località costiera, famosa per i resti di un’antica città romana, una brigata dell’Isis ha allestito una serie di campi di addestramento per jihadisti, descritti dagli esperti come vere «fabbriche del terrore», che ricordano le vecchie basi afghane di Al Qaeda. Da qui, da questi covi affacciati sulle spiagge di fronte all’Italia, sono passati molti esecutori degli attentati più efferati di questi anni.
LA BRIGATA DELLE STRAGI Il più pericoloso campo-scuola per terroristi viene aperto circa tre anni fa proprio a Sabrata da una speciale colonna di guerrieri dell’Isis. Sono jihadisti di lungo corso, i capi hanno combattuto in Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Algeria o Iraq quando l’Isis non esisteva ancora. Scoppiata la guerra in Siria, una brigata di libici, chiamata Battar, si unisce ai miliziani del Califfato nero e si fa conoscere per ferocia e capacità belliche, tanto da guidare le truppe d’assalto dell’Isis, che la usa come squadrone della morte. Nel 2014 gli strateghi del Califfato, per evitare conflitti di potere, decidono di smantellare le brigate reclutate su base nazionale: quindi anche i libici devono arruolare stranieri. Nella brigata Battar entrano soprattutto jihadisti francofoni: tunisini, marocchini, francesi e belgi. Sono i veterani libici a trasformare in una macchina da guerra, tra molti altri, il giovane cittadino belga Abdelhamid Abbaoud, poi diventato il capo della cellula degli stragisti di Bruxelles e Parigi, dove è stato ucciso dalla polizia francese.
Tra il 2014 e il 2015, quando il Califfato è al massimo della potenza territoriale in Siria e Iraq, la brigata Battar, ormai diventata internazionale, rientra in Libia. E nei dintorni di Sabrata crea un campo militare con istruttori che insegnano a fabbricare bombe e cinture esplosive, attaccare luoghi pubblici, sequestrare ostaggi, organizzare attentati, come confermano numerosi jihadisti arrestati in Libia e Tunisia. Da quella fabbrica libica del terrore, secondo le autorità tunisine, sono usciti anche i terroristi della strage al Museo del Bardo (dove sono morti quattro turisti italiani) e della carneficina di bagnanti sulla spiaggia di Soussa.
Il primo covo dell’Isis a Sabrata è stato distrutto un anno fa da un bombardamento aereo autorizzato dal presidente americano Obama. Decine di jihadisti sono morti, ma molti altri si sono dispersi e hanno aperto nuove basi nelle impervie montagne dell’entroterra. Da dove continuano a reclutare e addestrare jihadisti anche occidentali. Come lo stragista di Manchester.
A collegare Sabrata all’Italia non è solo la vicinanza geografica e storica. Nella brigata Battar sono entrati anche jihadisti che hanno abitato per anni nel nostro Paese, dove sono stati arrestati e condannati per terrorismo internazionale. Il loro ruolo è stato ricostruito dalla polizia e dalla procura antiterrorismo di Milano con mesi di intercettazioni preventive (quelle che non servono a fare processi per reati passati, ma a evitare attentati futuri). Questi jihadisti di casa nostra, dopo aver scontato la pena, vengono espulsi dall’Italia e tornano in patria. Sono quasi tutti tunisini. Dopo la rivolta che abbatte la dittatura, tornano in libertà con l’amnistia generale. Poi almeno undici di questi jihadisti già detenuti in Italia entrano in Ansar Al Sharia, il gruppo ultraintegralista che nel 2012 passa al terrorismo. Il loro “emiro”, Seifallah Ben Hassine, già predicatore salafita a Londra, viene poi ucciso da un drone americano. Intanto l’ala militare del gruppo tunisino parte per la nuova guerra santa, prima in Siria, poi in Libia. Nell’Isis, in particolare, sono entrati almeno sei jihadisti made in Italy: un libico e cinque tunisini.
L’Espresso ha raccontato le loro storie già nell’agosto 2014. Il più famoso, Moez Fezzani, è stato arrestato nei mesi scorsi in Sudan e ora è detenuto in Tunisia. Secondo le indagini milanesi, era diventato uno dei boss della brigata Battar a Sabrata. Quella della base per le stragi.
ANCHE L'ITALIA NEL MIRINO Anis Amri è il terrorista della strage di Berlino (12 vittime, tra cui un’italiana) che è stato ucciso a Sesto San Giovanni in una sparatoria con la nostra polizia. Il 19 dicembre 2016, pochi minuti prima di rubare il camion con cui si è scagliato sulla folla al mercatino di Natale, ha fatto l’ultima telefonata a un cellulare localizzato in Libia. E mentre preparava l’attentato, secondo le indagini tedesche, ha contattato più volte lo stesso numero libico. Quindi anche il terrorista di Berlino, definito dall’Isis «un nostro soldato», è stato messo in moto dalla Libia, non dalla Siria. In Italia era soltanto in fuga: non risulta che avesse complici. Però girava armato, con un cellulare vuoto.
La strategia terroristica che minaccia anche l’Italia è ben descritta, nelle sue linee generali, da una conversazione su Internet attivata proprio da Mido, il 28enne arrestato in aprile a Torino. È questa intercettazione, definita «allarmante» dai nostri giudici, che ha fatto partire l’inchiesta italiana. Il 25 febbraio 2016 il ragazzo di Torino (di cui in quel momento si conosce solo lo pseudonimo su Internet: Ibn Dawla, cioè figlio dell’Islam) parla con il texano di Dallas, a sua volta protetto da uno pseudonimo. Il dialogo è solo riassunto negli atti giudiziari. Mido chiede all’americano dell’Isis se, invece di andare a combattere in Siria, è possibile «fare qualcosa in Italia», se «è arrivato il momento». «Mi servirebbero altri tre uomini», precisa Mido, perchè così avrebbero «la potenza di 15 persone». La sua idea è di «attaccare con i coltelli». La risposta del texano non è trascritta. Ma il senso del dialogo resta chiaro.
L’Isis, con la sua eccezionale capacità di reclutamento su Internet, ha migliaia di affiliati anche in Ocidente. In questa situazione, per organizzare una strage, basta collegare un circuito: uno sceicco che legittima, un attivatore insospettabile, un istruttore per eventuali attacchi con armi o esplosivi. E un canale sicuro per comunicare con una cellula o con un qualsiasi fanatico pronto a immolarsi.
Nei primi interogatori dopo l’arresto Mido ha negato di aver mai progettato attentati in Italia. Ma ha confermato di aver parlato più volte con il jihadista texano, che lo aveva impressionato per la sua capacità «pazzesca» di reclutare e attivare jihadisti. Agli inquirenti americani, Mido ha spiegato che gli strateghi dell’Isis sostengono di essere ancora nella prima fase della loro guerra cosmica: «I primi nemici da eliminare sono i falsi sunniti e gli sciiti, per unire tutti i musulmani sotto il Califfato. La vera guerra all’Occidente deve ancora cominciare».
Il suo avvocato, Francesco Furnari, assicura che il ragazzo, radicalizzatosi molto in fretta, sta prendendo le distanze dall’Isis con altrettanta rapidità, tanto che ora promette di «collaborare con la giustizia». Se queste parole verranno confermata dai fatti, il suo ruolo chiave nelle comunicazioni segrete tra terroristi potrebbe farne il primo pentito italiano dell’Isis.