Il suprematismo bianco fa più morti del terrorismo islamista

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Esistono molte similitudini con gli jihadisti. A partire dall'uso della violenza. E dovremmo trattarli allo stesso modo. Parla l'ex agente speciale Ali Soufan (Foto Anthony Karen)

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Lo scorso 10 settembre, un giorno prima dell’anniversario dell’attentato contro le torri gemelle Ali Soufan, ex agente speciale che ha investigato casi di terrorismo internazionale altamente sensibili e complessi, tra cui i bombardamenti e l’attacco alla Uss Cole, oltre agli eventi legati proprio all’11 settembre, ha parlato alla House Committee on Homeland Security (Comitato della Camera sulla Sicurezza Interna). Il tema del suo intervento sulle minacce legate al terrorismo globale non era focalizzato solo sullo stato dei gruppi jihadisti, ma sull’evoluzione del suprematismo bianco.

Dice Soufan nel suo intervento: «Non è solo il terrorismo jihadista a minacciare gli Stati Uniti. […] I suprematisti bianchi sono stati responsabili di tre volte più morti negli Stati Uniti rispetto agli islamisti. […] Da Pittsburgh a Poway, da El Paso a Charlottesville, l’estremismo suprematista affligge regolarmente gli Stati Uniti, e questa minaccia non ha una natura solo locale ma sta manifestando le sue caratteristiche transnazionali».

Proprio in settembre, la sua organizzazione, il Soufan Center, che si occupa di fornire risorse, ricerche e analisi legate a problemi di sicurezza globale e minacce emergenti ha pubblicato un report dal titolo: “L’ascesa transnazionale del violento movimento suprematista bianco”. Secondo lo studio, più di 17 mila persone provenienti da 50 Paesi, compresi gli Stati Uniti, hanno viaggiato in Ucraina negli ultimi anni per combattere sia per le forze pro-ucraine che per quelle russe.
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20/9/2018

Nel vostro rapporto affermate che esistono similitudini tra il suprematismo bianco e gli jihadisti?
«Se osserviamo come si sta sviluppando il suprematismo bianco notiamo parallelismi con l’evoluzione dei gruppi jihadisti nella seconda metà degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta: come gli jihadisti, i suprematisti bianchi giustificano l’uso della violenza come autodifesa intrinsecamente necessaria a combattere la violenza degli avversari. Entrambi i gruppi utilizzano spesso metafore nei loro scritti propagandistici che riflettono la convinzione che le società cui appartengono siano sotto assedio e che solo la violenza possa fermare gli “invasori”. Gli jihadisti, identificano i nemici nell’Occidente che cerca di distruggere l’Islam mentre gli estremisti suprematisti bianchi temono il multiculturalismo, l’immigrazione che porterebbe a quella che definiscono l«islamizzazione» della società. La violenza diventa così mezzo della “guerra ideale” che conducono ma anche modello per reclutare altri sostenitori. E finisce per generare identità. La minaccia alla propria identità che questi gruppi percepiscono li rende uno lo specchio dell’altro».

I combattenti di cui parlate sono estremisti di destra, suprematisti bianchi che viaggiano in Ucraina seguendo un percorso che ha delle analogie con il movimento dei combattenti jihadisti in Siria.
«L’Ucraina è per i suprematisti proprio quello che la Siria è stata negli anni recenti per gli jihadisti. E svolge la funzione che prima ha assolto l’Afghanistan. L’Ucraina ha un effetto galvanizzante, è un luogo di reclutamento, addestramento, combattimento e finanziamento e i suprematisti vi si recano per combattere sia su lato russo che su quello ucraino. La maggior parte dei foreign fighters in Ucraina proviene dalle regioni più prossime, Bielorussia, Germania, Georgia. Non è diverso da quello che abbiamo vissuto con l’Isis. Uno dei gruppi di destinazione è il Battaglione Azov, una forza filo ucraina che ha reclutato attivamente combattenti stranieri, motivati da una ideologia neonazista. A dimostrazione del carattere transnazionale della minaccia, proprio il Battaglione Azov ha relazioni con i membri della divisione Atomwaffen, e non i sostenitori statunitensi di The Rise Above Movement (Ram), gruppo descritto dall’Fbi come “organizzazione estremista suprematista bianca” basata nel Sud della California».

Anche le parole usate dai gruppi suprematisti raccontano una prossimità con i gruppi jihadisti...
«Sì, i gruppi suprematisti stanno anche mutuando una narrazione del mondo dai movimenti jihadisti. Un’organizzazione basata negli Stati Uniti ha adottato, come nome per una piattaforma social che collega vari elementi di estrema destra, il nome The Base, la base. La base era il nome selezionato da Osama bin Laden per il suo gruppo: tradotto in arabo è, appunto, Al Qaeda. La propaganda serve a esporre la propria ideologia e ad avvicinare nuovi sostenitori. Per gli jihadisti sono i video di martirio e decapitazione, per i suprematisti bianchi è lo streaming degli attacchi, come nel caso di Christchurch, l’attacco in Nuova Zelanda. Prima della carneficina l’attentatore pubblicò un lungo manifesto di 74 pagine in cui aveva razionalizzato il suo massacro come una protesta contro la “sostituzione etnica”, cioè l’idea che i musulmani stessero cercando di cancellare la cultura bianca europea. Difendeva l’idea di combattere la sua “guerra santa” per purificare la società, esattamente come gli jihadisti. Questi manifesti, le dirette, l’esaltazione della violenza, l’uso in generale delle piattaforme internet come strumento di diffusione del messaggio, servono ad avvicinare le parti più vulnerabili della società».

Nel rapporto sostenete che «giocare sulle paure per monetizzare l’odio e la discordia è un grande affare». Quali sono i principali modi di finanziamento del suprematismo bianco?
«Non essendo considerati gruppi terroristici i suprematisti bianchi hanno modi trasparenti e legali di finanziamento. Sia il crowdfunding che le criptovalute sono un metodo diffuso di finanziamento per i gruppi suprematisti. Molti hanno sfruttato le piattaforme social per creare contenuti e cercare finanziamenti attraverso sistemi di pagamento che facilitano le transazioni peer-to-peer (P2p). Non è possibile quantificare con precisione la portata del potere finanziario dei gruppi suprematisti ma possiamo ritenere che sia molto significativa e che essi abbiano potuto avvalersi di donatori che condividono la loro ideologia».

Come ricordava, il suprematismo bianco è responsabile di più morti in America che gli attacchi terroristici di matrice jihadista dopo l’11 Settembre. Per anni, l’Fbi ha generalmente descritto gli estremisti violenti di destra o come “razzisti” o come “terrorismo domestico”, e gli estremisti violenti ispirati da gruppi militanti islamici come al Qaeda e lo Stato islamico come “terrorismo internazionale”.
«Sfortunatamente l’America non ha trattato per lungo tempo il suprematismo bianco come ha trattato la minaccia dei gruppi jihadisti. Ha molto a che fare con la politica e molto con la nostra percezione del pericolo che questi gruppi rappresentano. Ma dobbiamo cominciare a relazionarci diversamente con questa minaccia. Lo scorso 30 ottobre il direttore dell’Fbi Christopher Wray ha detto al Congresso che i neonazisti americani pesano sempre di più a livello internazionale e ha affermato che gli estremisti siano motivati da ragioni razziali e confermato i reclutamenti on line e i viaggi di addestramento. Recentemente l’Fbi ha arrestato, in Kansas, un soldato con l’accusa di condividere le istruzioni di fabbricazione di bombe su Facebook. Ha dichiarato in Tribunale di essere stato guidato da un ex soldato dell’esercito che era andato a combattere a fianco di un gruppo estremista in Ucraina, Craig Lang, un ex soldato dell’esercito statunitense che nel 2016 si sarebbe unito a Right Sector, un gruppo paramilitare nazionalista ucraino di estrema destra, impegnato nella lotta contro i separatisti russi. È solo una delle conferme della minaccia terroristica interna».

In un recente articolo che ha scritto per il New York Times sostiene che dal 2001 un lungo elenco di persone sia stato incriminato con l’accusa di sostenere materialmente gruppi terroristici vicini ad Al Qaeda, ma che per il terrorismo interno le accuse di sostegno economico, materiale sono impossibili perché - lei scrive - «non esiste un meccanismo per designare gruppi terroristici domestici in quanto tali e le accuse di terrorismo interno sono più difficili da dimostrare e comportano sanzioni inadeguate alla gravità del reato».
«Sì, anche l’attentatore di Oklahoma City, Timothy McVeigh, il caso più grave di terrorismo domestico nella storia della nazione, non è stato accusato di alcun reato di terrorismo. Quello che auspichiamo è che l’Fbi segua il modello inglese, sulla scia dell’ MI5, rispettando le libertà costituzionali ma aggiornando la legislazione post 11 settembre per equiparare i gruppi terroristici locali e quelli stranieri. Solo così le forze dell’ordine potranno monitorare adeguatamente i gruppi e fornire prove ai pubblici ministeri».

In questi mesi abbiamo assistito alla presunta morte di Hamza Bin Laden e alla morte di Abu Bakr al Baghdadi. Cosa rappresenta la morte di Baghdadi per Isis e in cosa è diversa dalla morte di Osama Bin Laden per le sorti di Al Qaeda?
«Dal punto di vista dell’ideologia, questi gruppi non si esauriscono con la morte del leader, non dobbiamo confondere la morte del capo con la fine del messaggio. In passato la morte di Bin Laden ha dimostrato di avere rafforzato Al Qaeda anziché indebolirla. E non perché Zawhahiri sia un leader migliore di lui, ma perché gli eventi in Siria e in Iraq hanno dato al gruppo un’opportunità di rafforzare il proprio messaggio, il reclutamento e l’azione. E soprattutto di raccogliere il vantaggio che i disordini e i vuoti politici hanno dato ai fondamentalismi. Pensare di aver sconfitto - attraverso la morte del leader - i fattori che contribuiscono allo sviluppo e alla diffusione di una ideologia è pura illusione. Negli ultimi vent’anni le politiche antiterrorismo si sono rivelate un boomerang. Se non facciamo attenzione ai complessivi aspetti geopolitici del gruppo rischiamo di non riuscire a prevedere cosa accadrà. Penso che al momento della morte di Bin Laden Al Qaeda fosse pronta alla transizione, il tentativo era esattamente attraverso Hamza bin Laden, il figlio prediletto di Osama. Per l’Isis è tutto diverso, molti numeri due dell’organizzazione sono stati uccisi, e molti sostenitori non sanno nemmeno chi sia il nuovo Califfo, non sanno il vero nome, non conoscono il suo volto. Isis tornerà a operare con modalità insurrezionali, forse i gruppi, Isis e al Qaeda, si avvicineranno o si coordineranno, come stanno facendo nel Sahel».

Molto è cambiato nel nord est della Siria negli ultimi mesi, l’offensiva turca in Rojava, e la decisione di Istanbul di cominciare a deportare i foreign fighters e le loro famiglie. Cosa si aspetta?
«Stiamo chiedendo a gran voce ai governi occidentali di definire una linea, abbiamo visto cosa è accaduto dopo l’Afghanistan, molti Paesi non volevano accettare indietro i propri cittadini che avevano combattuto.
Non dobbiamo e non possiamo ripetere i medesimi errori. Allora il mondo si accorse in ritardo di avere un problema con il reclutamento del fondamentalismo islamico, se ne accorse l’11 settembre. È un fenomeno già visto, ed è esattamente ciò cui stiamo assistendo con i foreign fighter e le loro famiglie nel nord est della Siria e in Iraq. Se non capiamo come fare, chi debba essere processato, chi vada aiutato con progetti di deradicalizzazione vedremo un film già visto. Tenere i bambini in questi campi profughi significa alimentare inesorabilmente la possibilità che siano terreno fertile di un reclutamento futuro. Io credo che il sistema giudiziario dei Paesi europei sia solido abbastanza per poter far fronte al problema, se ci voltiamo dall’altra parte, senza potenziare il sistema giuridico o i percorsi di deradicalizzazione, passerà del tempo, i detenuti usciranno di prigione - qualcuno di loro è già fuggito - e immaginate cosa significherà quando saranno sparsi per il mondo, cercando un altro luogo che unifichi il loro messaggio, e cercheranno di colpire i loro governi, i Paesi da cui provengono e che li hanno rifiutati, le loro comunità di origine. Abbiamo l’opportunità di trovare una soluzione ora e i governi europei non possono abdicare questa responsabilità verso i propri cittadini. Soprattutto sulla riabilitazione dei bambini. Non farlo significa alimentare i problemi del futuro.

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