La ripresa dell'occupazione nasconde un dato tutt'altro che positivo: la maggior parte delle posizioni create negli ultimi anni garantisce paghe basse, mentre i salari del ceto medio rallentano. Ma nel resto del Continente non va così

Quando una persona inciampa gli può andare bene e tirarsi su in fretta, magari senza troppi danni, oppure prenderla male e cominciare a zoppicare. Per quanto riguarda il lavoro, non solo la crisi ha colpito gli italiani molto più a fondo che in tante altre nazioni europee, ma anche la ripresa ha lasciato cicatrici profonde.

Persino quando i posti tornano a crescere, com’è successo negli ultimi tempi, fra lavoro e lavoro può esserci una grande differenza. Se un posto con uno stipendio decente viene sostituito da uno con un salario da fame è meglio di nulla, certo: ma nulla di cui festeggiare.

Questa è esattamente la situazione dell’Italia, secondo un recente studio dell’agenzia europea Eurofound, che ha analizzato in che modo cambia il lavoro negli ultimi anni – dove migliora, con salari in crescita, e dove invece diventa più povero.

Dalla seconda metà del 2011 a quella del 2016, hanno mostrato gli autori, in Italia ci sono state due evoluzioni fondamentali. La prima è che la maggior parte dei nuovi posti creati risultano fra i lavori più poveri: esattamente nel 20 per cento inferiore degli stipendi. Al contrario le perdite sono arrivate nei lavori da classe media e medio-alta. C’è stato insomma un generale arretramento nella qualità del lavoro, con centinaia di migliaia di persone in più ora occupate in mestieri in cui guadagnano pochissimo.



Positivo è il fatto che, almeno per alcuni aspetti, il peggio sembra passato. Guardando al periodo che va da metà 2011 a metà 2013, gli autori della ricerca hanno trovato un calo nell’occupazione in tutte le fasce da salario, dalle più ricche in giù, tranne che per quelle meno retribuite.

Negli ultimi tre anni quanto meno l’emorragia di posti si è arrestata, e anzi sembra ricominciata una discreta crescita. Tuttavia anche qui i nuovi lavori si concentrano in buona parte fra quelli più poveri, con la classe media che fatica e si assottiglia, ma anche un discreto numero di posti nei lavori con stipendio medio-alti e alti – ancora insufficienti però a compensare le perdite di chi aveva un lavoro normale.

Gli stessi autori dello studio scrivono infatti che «un piccolo numero di stati mostra un degrado nel modo in cui è cambiata l’occupazione dal 2013, con la maggior parte della crescita di nuovi posti che si trova nella parte più povera della distribuzione dei salari». Fra essi Ungheria, Irlanda e Olanda, mentre proprio in Italia «dal 2011 al 2016 la crescita dell’occupazione è stata fra i lavori con paga più bassa».

Altro fattore cruciale è il ruolo degli immigrati. Risulta infatti che praticamente tutte le perdite di chi aveva un salario medio e medio-alto riguardano chi è nato nel nostro paese. Allo stesso tempo, circa quattro su cinque dei nuovi posti a bassa paga riguardano invece persone di origini non italiane. La ricerca sottolinea che «in Italia, dove la maggior parte della crescita dell’occupazione è avvenuta in lavori a basso salario, a esserne responsabili sono soprattutto i non nativi».



Le difficoltà dell’Italia si vedono ancora con maggior chiarezza facendo un confronto con altre nazioni europee. Regno Unito e Germania, in questo senso, risultano fra le più in forma: paesi dove si è verificato un solido aumento sia nel numero di posti totali che nella loro qualità.

«Le nazioni più popolose con aumenti significativi dell’occupazione», notano gli autori dello studio, «mostrano un chiaro percorso di miglioramento nella qualità del lavoro»: e in particolare proprio Regno Unito, Germania e Polonia. Altre nazioni su questa strada sono state Svezia e Portogallo, mentre in Francia la situazione appare meno chiara – con perdite nei lavori a paga medio-bassa e medio-alta. Resta fermo però che in tutti questi altri paesi il mercato del lavoro si è mosso in maniera migliore che in Italia.



Un elemento che i numeri di Eurofound non considerano è la crescita della popolazione italiana, che nello stesso periodo è aumentata di 1,3 milioni di persone. Questo crea una piccola illusione ottica, in base alla quale i nuovi posti creati sembrerebbero più di quelli persi – ma non è così. Intanto l’analisi parte dal 2011, quando un gran numero di posti era già scomparso in seguito ai primi anni della crisi. Poi, più in generale, la fetta di persone occupate in Italia oggi resta ancora minore rispetto a quella pre crisi.

Proprio nel 2007 e 2008, prima che si facessero sentire gli effetti della Grande Recessione, il numero di italiani con un lavoro aveva raggiunto il massimo storico al 58,6 per cento. In nessun periodo precedente – né successivo, in effetti – era stato tanto elevato, e dalla fine degli anni ‘70 fino a tutti gli anni ‘90 mai aveva raggiunto neppure il 55 per cento. Tre punti di differenza possono non sembrare molti, ma a conti fatti si tratta di milioni di senza lavoro in meno.

Al momento dunque resta ancora un pezzo di strada da fare, anche solo per tornare agli stessi numeri di allora.

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Per quanto riguarda il lavoro nazioni come Francia, Germania, Regno Unito e persino Spagna possono forse aver sentito il colpo della crisi – chi più, chi meno. Ma è proprio l’Italia a restare in una triplice – e non invidiabile – condizione: partire da una situazione peggiore degli altri, recuperare assai più lentamente e, come scopriamo ora, neppure tramite lavori pagati in maniera dignitosa.

Agli italiani, ci dice questo nuovo studio, per il momento restano quasi soltanto quelli poveri.