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Inchieste
agosto, 2018

Gallerie killer, cedimenti, appalti e poltronifici: così le nostre strade sono diventate un incubo

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Il ponte Morandi è solo l'ultimo di una lunga serie di tragedie e inefficienze. E la legge del 2001 sulle responsabilità delle aziende protegge i top manager, che "possono non sapere"

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C’è una presunzione di colpevolezza in ogni grande infrastruttura. In Italia ogni strada, ogni ponte, ogni binario sono sospettati di esistere non perché necessari ma come pretesto per creste, tangenti, ruberie. È triste, quando va bene e si finisce in coda. Sa di presa in giro quando si osserva increduli il minischermo del casello che indica l’ennesimo aumento di pedaggio poco prima che la sbarra si alzi e una voce registrata ti dica arrivederci con allegria. È tragico quando la campata del viadotto Morandi a Genova si sbriciola sotto le ruote dei veicoli di passaggio, martedì 14 agosto. Il bilancio delle vittime è da strage terroristica. Il costo politico non è meno pesante.

A ragione o a torto, lo paga per intero il centrosinistra, accusato dalla folla ai funerali del 18 agosto e dai social network di comparaggio con il concessionario Autostrade per l’Italia (Aspi). Le scuse tardive dei Benetton hanno messo benzina nel serbatoio di un governo spaccato sulle infrastrutture. È parso che sia stata la linea dura del premier Giuseppe Conte a piegare l’arroganza e il gelo tecnicistico del management di Aspi, guidato da Giovanni Castellucci e Fabio Cerchiai.

Conte è un avvocato. Per mestiere sa che un contenzioso sulla revoca della concessione può durare più del suo governo ma ha giocato bene la sua carta. Ha fatto dimenticare che il suo alleato, la Lega, ha governato in sede locale e nazionale alcuni fra i peggiori disastri strutturali e che tutti hanno partecipato a costruire la distruzione, incluso lo stesso premier, consulente ben retribuito delle concessionarie.

La strana alleanza
Questa estate chi ha percorso la Salerno-Reggio Calabria, gestita dall’Anas e dunque dallo Stato, si sarà goduto il solito spettacolo di una mezza dozzina di gallerie che traforano il nulla, con un po’ di terra sparsa in cima a scopo ornamentale.

Dopo la tragedia
In Italia le infrastrutture sono a pezzi ma la manutenzione non porta voti
17/8/2018
Nella zona fra Mileto e Rosarno gli automobilisti avranno visto che il limite di velocità scende a 80 km/h senza ragione apparente. Una serie di cartelli gialli, lunghi otto righe e non proprio di facile lettura anche rispettando gli 80, spiegano che quel tratto è sotto sequestro preventivo dell’autorità giudiziaria per l’inchiesta sulla ditta Cavalleri, avviata oltre due anni fa. È possibile che abbiano rubato, quindi bisogna andare piano. Nella stessa zona c’è la “galleria killer” Fremisi-San Rocco, un tunnel nuovo di zecca che ha provocato cinque morti in pochi mesi nel 2016 con relativa inchiesta e dodici indagati.

Come si spiega la galleria killer a un turista tedesco? Lui viene da un paese dove le autostrade non si pagano e si comportano con ottusità germanica, ossia da autostrade e non da oggetti di cristalleria.

Come si spiega a uno straniero in una domenica di controesodo infernale, che per salire dalla Riviera adriatica bisogna aggirare la voragine di Bologna e che lo stesso accade a Genova, dove ci sono anche i traghetti in arrivo da Corsica e Sardegna?

Le grandi opere sono un mondo complicato, pieno di codici e norme in continuo cambiamento, dove ballano cifre a otto o a nove zeri. È un sistema dove è difficile fare cronaca, tra querele sistematiche e budget pubblicitari usati a mo’ di silenziatore.

Così il dibattito pubblico si è polarizzato sugli slogan. Di qua c’è il no a tutto, alla Gronda di Genova, al passante di mezzo di Bologna, alla Tirrenica, alla Torino-Lione, al passante ferroviario di Firenze, e via elencando. È la posizione del M5S prima del 4 marzo. Dall’altra parte c’è la Lega e il suo sì a tutto perché l’Italia si sviluppa soltanto con più cemento, più strade ferrate, più acciaio.

L’escamotage del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, cioè il calcolo costi-benefici sui progetti in cantiere, serve soltanto per guadagnare tempo e rinviare la resa dei conti nell’esecutivo. Ma il calcolo costi-benefici sulle grandi opere è sempre in perdita. Le principali infrastrutture, dal canale di Suez a Panama all’Eurotunnel, sono costate cifre terrificanti, hanno rovinato i privati che ci hanno investito e hanno sommerso di debiti gli Stati.

L’unico calcolo sensato sarebbe: serve o non serve? Ma per questo ci vuole una linea strategica a lungo termine, non un’alluvione di tweet e comparsate tv per vincere le prossime regionali in Abruzzo. La fretta dei politici nel monetizzare i disastri corre in parallelo con la cecità aziendale dell’obiettivo immediato, a scadenza trimestrale, finalizzato al bonus variabile di fine anno.

Se lo Stato è il primo colpevole, è difficile trovare innocenti. Dice un progettista con trent’anni di esperienza e qualche no di troppo che non ha certo giovato alla sua carriera: «È un caso da manuale di eterogenesi dei fini. L’antagonismo sistematico degli ambientalisti è stato il migliore alleato di chi non voleva investire».

Rischio erosione
Soltanto in Sicilia, trenta viadotti sono a rischio inclusi i due realizzati da Morandi sulla Agrigento-Porto Empedocle e il Corleone, quello che sembra più problematico. A Catanzaro c’è un altro Morandi, il ponte Bisantis non lontano dagli svincoli nuovi creati nella zona dell’università di Germaneto che hanno già mostrato segni di cedimento. Più a nord c’è il ponte sulla statale 107 che oscilla e si flette in modo pauroso al passaggio dei veicoli: la Procura di Cosenza ha appena aperto un’indagine. L’Anas ha assicurato che è tutto a posto. Ma è la stessa cosa che ha detto l’ingegnere Giovanni Castellucci, ad di Atlantia-Autostrade. Lo ha detto dopo, non prima che crollasse il viadotto sull’A10 («Non mi risulta che il ponte fosse pericoloso»). A Benevento un’altra opera di Morandi è stata chiusa dal sindaco Clemente Mastella. In Abruzzo c’è il ponte di Lanciano, sulla Torino-Savona c’è il viadotto Lodo con i tondini in bella mostra grazie all’erosione del cemento. È un elenco infinito e da dopo Ferragosto centinaia di Comuni italiani con strutture a rischio, reale o presunto, stanno tempestando di telefonate l’Anas che ha dovuto creare una struttura ad hoc.

Editoriale
C’è un altro ponte da ricostruire
27/8/2018
La tragedia di Genova segna la fine della fiducia nei controllori e l’inizio della speranza in un fato benevolo ogni volta che si sale in macchina.

Sul fronte delle sanzioni non va molto meglio. Per il crollo del viadotto di Fossano dell’aprile 2017 ci sono dodici indagati. Ci è voluto più di un anno per una perizia tecnica che non ha portato a conclusioni definitive sulle responsabilità.

Per il crollo del viadotto sull’A14 ad Ancona il 9 marzo 2017 (due morti) l’inchiesta è in corso con sei indagati dipendenti di Aspi. Anche per il crollo del viadotto di Annone Brianza sulla statale 36 il 28 ottobre 2016 (un morto) sono in corso le indagini.

Per il crollo del viadotto Scorciavacche, inaugurato senza collaudo dal top management dell’Anas il 23 dicembre 2014 e collassato una settimana dopo, il gip di Termini Imerese sta valutando le richieste di rinvio a giudizio della Procura.

Per la strage sul viadotto dell’Acqualonga ad Avellino, dove un pullman sfondò le barriere dell’A16 (40 morti) il 28 luglio 2013, è in corso il processo che vede fra gli imputati anche Castellucci. Per il cedimento del ponte di Carasco (Genova) sul torrente Sturla il 21 ottobre 2013 (due morti) ci sono state quattro assoluzioni. Il crollo non era prevedibile. Per il crollo sulla provinciale Oliena-Dorgali in Sardegna del 18 novembre 2013, che provocò la morte di un poliziotto di scorta a un’ambulanza, la Procura ha chiuso le indagini ad aprile di quest’anno con tre richieste di rinvio a giudizio.

La legge 231 del 2001 sulla responsabilità penale delle aziende ha prodotto una quantità di organi di vigilanza che sono diventati un poltronificio ben pagato per i soliti noti, grandi avvocati, ex magistrati amministrativi o contabili. Sul piano pratico, la 231 ha spesso allontanato la responsabilità dal top management, che ha il diritto di non sapere, per scaricarla sui livelli medi o bassi, nella più classica struttura di governance fantozziana.

Del resto, il responsabile per Autostrade della manutenzione sull’A10 è un geometra, come risulta dai documenti interni di Aspi. Si chiama Mauro Moretti ed è solo omonimo dell’ingegnere Moretti. Il numero uno di Fs, e poi di Finmeccanica, è stato condannato in primo grado a sette anni per la strage di Viareggio del 29 giugno 2009 (32 morti). L’appello inizierà il prossimo novembre. Forse per la presunzione di innocenza il Moretti delle Fs è ancora presidente della Fondazione Ferrovie dello Stato e ha la carta per viaggiare gratis sui treni.

A oggi la sentenza più dura è toccata a Sandro Gualano per il disastro di Linate dell’8 ottobre 2001 (118 morti). L’ex ad di Enav è stato condannato in via definitiva a sei anni e sei mesi.

Controlli? No, grazie
Sugli aspetti giuridici della revoca della concessione è intervenuto l’ex magistrato ed ex ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro. Il fondatore dell’Idv ha commentato che la costituzione di parte civile contro Atlantia da parte del ministro attuale è infondata perché proprio il Mit dovrebbe controllare le concessionarie. Toninelli, dottore in giurisprudenza, dovrebbe sapere che a un tribunale non interessano i cambi di maggioranza. I giudici valutano gli atti del governo in continuità e chi non ha controllato o ha controllato male è responsabile per un principio giuridico (culpa in vigilando) vecchio quanto il diritto romano.

È anche giusto ricordare che, da ministro delle Infrastrutture (2006-2008), Di Pietro diede il via alla convenzione Anas-Autostrade che conteneva l’adeguamento automatico delle tariffe (70 per cento sull’inflazione reale). Inserita nel decreto Milleproroghe, ultimo atto del governo Prodi bis, la convenzione fu esclusa in extremis e approvata il 18 giugno 2008 dal nuovo Senato a maggioranza Pdl.

È un meccanismo con benedizione bipartisan che nessuno è più riuscito a smontare, come pure ha tentato di fare Graziano Delrio, fallendo per i ricorsi ai tribunali dei concessionari.

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Benetton, Gavio e gli altri imprenditori che gestiscono le strade a pagamento hanno sempre pubblicizzato i loro investimenti a nove zeri. In che misura siano stati fatti è difficile dire. Fino a sei anni fa questi investimenti li controllava l’Anas. Poi, sotto la gestione di Pietro Ciucci, l’ex ente concedente ha voluto farsi concessionario nel tentativo di uscire dal perimetro della pubblica amministrazione.

Destinata alla regionalizzazione dalle prime ipotesi federaliste di vent’anni fa, l’Anas si è messa in società con le regioni, attraverso una serie di jont-venture dalla Lombardia al Veneto, dal Molise al Lazio, dall’Umbria alle Marche, che avevano come principale utilità il parcheggio a peso d’oro di pensionati dell’Anas stessa e di usati sicuri della politica locale.

Intanto l’Ivca, l’ispettorato vigilanza concessioni autostradali dell’Anas, è passata armi, bagagli e personale al Mit nell’autunno del 2012 cambiando nome in Svca (struttura di vigilanza sulle concessioni autostradali) e mantenendo alla guida Mauro Coletta. I controlli, che già non erano feroci, sono stati ulteriormente ammansiti all’interno di una squadra demotivata dal taglio di stipendio.

Nell’agosto 2017 alla Svca è stato nominato il dottore in scienze politiche Vincenzo Cinelli, ex dg per il settore dighe e infrastrutture elettriche, mentre Coletta ha assunto la direzione di controllo sui porti del Mit.
È uno degli esempi di quel nocciolo duro di alti dirigenti ministeriali che, di norma, finiscono per contare più dei ministri stessi, qualunque sia il loro orientamento politico.

Controesodo Anas
Esclusivo
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27/8/2018
Il tutti contro tutti fa emergere vecchi rancori fra la parte pubblica, dove gli stipendi sono più bassi, e la parte privata. Un dirigente dell’Anas racconta così il suo esodo estivo sull’A16, la Napoli-Bari gestita da Autostrade. «Il 3 agosto nel beneventano inizia a grandinare. Non si vedeva nulla e non ci si poteva fermare perché non c’è corsia di emergenza. Siamo finiti incolonnati dietro un mezzo di Autostrade che segnalava lavori in corso. Lì sono tutti viadotti con una piazzola di emergenza ogni tanto. Le nostre statali, anche quelle più problematiche come la 106 hanno la corsia di emergenza. D’inverno, alla prima nevicata, i concessionari chiudono l’autostrada e scaricano tutto il traffico sulla nostra rete».

Nei giorni di fuoco del viadotto Morandi è tornata più volte l’eventualità di affidare le autostrade di Aspi all’Anas, in caso di revoca della concessione o addirittura di nazionalizzazione. Anche questa sarebbe un’inversione di marcia a 180 gradi e presume un accordo politico fra le forze di governo.

Il primo passo operativo è relativamente semplice: annullare l’incorporazione di Anas nel gruppo Fs varata alla fine del 2017 da Delrio. L’Anas grillo-leghista sarebbe più simile al vecchio ente della Prima Repubblica senza averne le forze, dopo anni di destrutturazione dovuta al cosiddetto federalismo stradale previsto dalla legge Bassanini del 2000.

Un vecchio dirigente dell’Anas ricorda di quando andò a contrattare la restituzione delle strade agli enti locali. «I liguri erano i più scatenati», dice. «Volevano fino all’ultimo metro di asfalto disponibile e lo volevano subito».
Il riflusso è partito già da qualche anno e, ancora una volta, la Liguria ha guidato la devoluzione dei tracciati dopo avere scoperto che sono soltanto spese e contenzioso.
Il controesodo da regioni e province ha portato l’Anas vicino ai 30 mila chilometri di strade gestite.

Lega d’asfalto
Prima del 14 agosto, la Lega lo aveva detto chiaro attraverso i suoi governatori di punta. Luca Zaia e Attilio Fontana hanno comunicato: con la Torino-Lione e il gasdotto Tap fate come vi pare, ma le nostre pedemontane vanno completate a qualunque costo e i miliardi che mancano vanno trovati. In Liguria il terzo governatore di centrodestra, il forzista con appoggio della Lega Giovanni Toti, si ritrova in una posizione di forza dopo lo scempio dell’A10. Non solo ha tutte le ragioni di puntare oltre l’emergenza ma sarà complicato per i grillini bloccare anche altre grandi opere di quel quadrante, incluso il terzo valico dell’Av ferroviaria.

C’è però un elemento di allarme che è sfuggito al fiume di dichiarazioni successive al 14 agosto. Le grandi opere si fanno a debito. Per finanziare i lavori non ci sono solo i soldi pubblici del Cipe ma un insieme di mutui bancari, di pegni, di obbligazioni emesse da società private (corporate) oppure da enti come nel caso Pedemontana Veneta, con la regione che paga interessi stratosferici sul capitale. Alcuni di questi bond sono quotati e tutti questi strumenti gravano sui bilanci. Imprese e concessionarie sono cariche di debiti che hanno una sostenibilità solo a fronte di margini improbabili, per chi costruisce, e di convenzioni a lunghissima durata, per chi gestisce.

Con la crisi delle cooperative di costruzione, di Condotte, di Astaldi, non è esagerato dire che il vigilante di ultima istanza sul sistema grandi opere è la Banca d’Italia.

Con una frase che meglio di tutte riassume la vacuità amatoriale del governo, Di Maio ha affermato: «L’Italia non è ricattabile». Come no. La precarietà finanziaria del sistema grandi opere è una bomba a orologeria nei conti già pericolanti dell’intera nazione.

Divorzio miliardario
Nel disastro, tra le foto delle famiglie distrutte e dei bambini travolti dal cemento, è crollato anche l’alibi di un certo capitalismo italiano fatto di imprese che vivono di tariffe. Suona paradossale che il gruppo Benetton, nato dal prodotto, abbia cambiato pelle fino a questo punto: tanta finanza, taglio costi, tariffe e royalties per fare utili.

Atlantia ha portato il grosso dei profitti distribuiti alla famiglia (2,7 miliardi nel biennio 2016-2017 e 4,8 miliardi negli ultimi cinque anni). Come disse anni fa Alessandro Benetton a un manager del gruppo: «Ma tu lo sai quanti cugini ho?»

Castellucci ha assicurato un considerevole tenore di vita alla seconda e alla terza generazione della famiglia di Ponzano Veneto ed è stato premiato con l’affidamento della pratica Leonardo da Vinci, l’ampliamento dell’aeroporto di Fiumicino. Una delle sue frasi famose dette in riunione ai suoi manager recita: «Gli italiani non hanno mai fatto una rivoluzione».

Dopo il disastro il gruppo ha promesso mezzo miliardo di euro per risarcire le vittime. Tanto o poco che sia, bisogna ricordare che nelle concessioni, secretate per motivi di concorrenza, c’è una clausola che vale molto di più. Si chiama diritto di subentro. Se lo Stato si riprende il suo, cioè l’autostrada, deve pagare un indennizzo al concessionario. L’unico caso pubblico finora è stato quello della Sat, l’autostrada tirrenica. D’accordo con l’Anas e il Mit, i Benetton avevano inserito una clausola di subentro alla scadenza (anno 2046) pari al costo previsto dell’opera (3,8 miliardi di euro). La clausola fu bocciata da una direttiva dell’Ue e cancellata dall’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Su altre concessioni il subentro è in vigore. Altri costi e altre cause in vista.

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