Resiste nei sondaggi. Ma si indebolisce sugli altri fronti. L’opposizione, la fronda interna, le inchieste sui lati oscuri del finanziamento al partito. Ecco come sarà il 2020 dello zar Matteo 

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"Dasvidania” Lega Nord. Così ha stabilito lo Zar Matteo Salvini, eletto dai sondaggi di fine 2019 capo del primo partito italiano. L’anno del Capitano. Forte sul crinale dei consensi, ma fragile su quello giudiziario. Disarmato di fronte alle inchieste delle procure che hanno acceso i riflettori sul lato oscuro del partito: i 49 milioni, i finanziamenti, la trattativa con gli uomini di Putin, l’accusa di sequestro di persona per il blocco della nave Gregoretti. Salvini chiude il 2019 vulnerabile come non lo è mai stato. E si autoproclama leader maximo della sua Lega, scrivendo la parola fine sull’era di mezzo delle due Leghe, una indipendentista l’altra nazionalista. Lega Nord, appunto, e Lega per Salvini premier.

Per due anni, infatti, Matteo Salvini è stato un segretario abusivo, contemporaneamente capo del vecchio e del nuovo partito. Non poteva esserlo, secondo lo statuto del Carroccio. Flavio Tosi pagò con l’espulsione l’aver fondato un suo movimento mentre era dirigente leghista. Matteo Salvini ha fatto finta di niente, fino al congresso del 21 dicembre scorso, che oltre a registrare il decesso della Lega Nord ha approvato il nuovo statuto blindato dai fedelissimi di Matteo.

Nuovo statuto che concede la possibilità di appartenere sia alla Lega Nord che alla Lega per Salvini premier. Una moratoria anche per il capo, che ha finalmente celebrato la nascita del partito personale, scevro dall’opposizione interna, marginalizzata a partire dal 2013, da quando cioè è diventato segretario del partito fondato da Umberto Bossi nel 1989.

La Lega Nord per l’indipendenza della Padania continua a esistere soltanto sulla carta. È il partito che deve restituire i 49 milioni di euro. La “bad company” che ha ottenuto dal tribunale di Genova la rateizzazione per i prossimi 70 anni. Poi c’è la “good company”, la Lega per Salvini premier. Qui confluiscono i contributi del 2 per mille e le donazioni degli imprenditori vicini al sovranismo. “Lega per Salvini premier” è un marchio registrato nel 2017. Un brevetto politico nato prima sui social che nelle piazze del Paese. Domiciliato nello studio di un commercialista di Milano, e non nella storica via Bellerio, cassaforte ideologica del leghismo settentrionale, del “celodurismo”, del secessionismo.

«Oggi non celebriamo alcun funerale al partito», si sono affrettati a dire i colonnelli della Lega durante il congresso di Milano del 21 dicembre. Umberto Bossi è salito sul palco, nonostante le precarie condizioni di salute. Tra un dito medio e un elogio nei confronti di Matteo, ha usato il bastone («Nessuno ci può imporre in che partito stare») e la carota, elogiando il segretario per il successo in termini di consenso. In realtà, lo sa bene il senatùr: il 21 dicembre è stata seppellita la Lega Nord per l’Indipendenza con la Padania, nella forma e nella sostanza. Sostituita dal partito sovranista di Matteo Salvini. Il partito del Capitano, folgorato dal nazionalismo, che per quanto provi a vendersi agli elettori come il nuovo, sa bene di essere figlio della prima Repubblica, cresciuto nella palestra del Carroccio di Bossi ai tempi in cui proprio il fondatore era alle prese con i primi guai giudiziari: all’epoca si trattava del finanziamento illecito di Enimont, 200 milioni di Lire, che ha portato alla condanna di Bossi e del tesoriere di allora, Alessandro Patelli. La pronuncia definitiva sui quei fatti è del 1998.

L’anno successivo un giovane Matteo Salvini aizzava la folla contro Roma ladrona: «Vogliamo fornire al sindaco l’occasione per dimostrare concretamente la sua opposizione al centralismo romano e la sua volontà di difendere davvero, con i fatti, gli interessi e le aspirazioni dei milanesi: venga con noi, al fianco di 700 meneghini stanchi dello strapotere romano, a marciare contro Roma ladrona il 5 dicembre. È un invito ufficiale: gli riserviamo fin da ora un posto sul Nerone Express».

La capitale d’Italia, madre di tutte le nefandezze. Salvini invocava Nerone, l’imperatore che distrusse Roma con il fuoco. Un mese prima da consigliere comunale si era rifiutato di stringere la mano a Carlo Azeglio Ciampi, in visita nel capoluogo lombardo ed eletto a maggio di quell’anno presidente della Repubblica italiana. Matteo aveva 26 anni, ed era già segretario del Carroccio di Milano. All’epoca patria e nazione non appartenevano al lessico dei militanti in camicia verde. Scorrendo il dizionario padano di quel tempo troviamo piuttosto “Prima la padania”, “Prima il Nord”, slogan che hanno segnato i raduni di piazza e nel pratone di Pontida, luogo sacro della Lega Nord indipendentista. Il partito delle ramazze e dei cappi mostrati in Parlamento contro i ladri di “tangentopoli”. Mani pulite è in realtà un periodo ambiguo per il Carroccio. Da un lato i parlamentari guidati da Umberto Bossi invocavano la forca per i corrotti, dall’altro hanno dovuto fare i conti con l’inchiesta sul loro fondatore, sul tesoriere di quegli anni e sui 200 milioni di lire incassati da Enimont.

Vestire i panni del tesoriere della Lega ha i suoi rischi. Del tesoriere ai tempi di Tangentopoli abbiamo detto. Poi è toccato a Francesco Belsito: mr 49 milioni di euro, il custode dei conti del partito artefice della truffa sui rimborsi elettorali insieme a Bossi. Da questa vicenda ha origine il debito di quasi 50 milioni che il partito deve allo Stato. Chi è arrivato dopo Belsito ha dovuto fare i conti con quel passato, anche perché Matteo Salvini da segretario ha rinunciato a chiedere i danni al fondatore del Carroccio. Giulio Centemero doveva incarnare la trasparenza del dopo truffa. Compito arduo, alle prese con il maxi debito e con la necessità di spendere per mantenere una macchina della propaganda costosa. Doveva far dimenticare “Ciccio” Belsito. E invece lo troviamo indagato a Roma e Milano per finanziamento illecito al partito: denari ricevuti dal costruttore Luca Parnasi e da Esselunga tramite l’associazione Più Voci, fondata proprio da Centemero nel 2015. In tutto 290 mila euro, più del doppio del finanziamento illecito ricevuto dalla Lega di Bossi ai tempi di Tangentopoli. Corsi e ricorsi della storia, i guai del vecchio Carroccio e le grane della nuova Lega di Salvini. Rappresentati dai leader, di ieri e di oggi, sul palco del congresso del 21 dicembre.

Ma qual è lo scopo politico del partito di Matteo Salvini? Roberto Maroni, segretario del Carroccio prima di Salvini, in un’intervista all’Espresso aveva spiegato che Matteo vuole fare della Lega il partito egemone della destra italiana. Per farlo ha dovuto celebrare il funerale del Carroccio fondato da Umberto Bossi. E benché i leghisti ripetano che «la Lega non muore mai», la verità è che Salvini ha cancellato il Carroccio dalla scena politica e si è fatto il partito personale. L’unica certezza è che Bossi non si tocca. Salvini l’ha dimostrato con i fatti: ha rinunciato a costituirsi parte civile nel processo contro il fondatore per la truffa dei 49 milioni; gli ha garantito un posto al Senato con la nuova Lega; gli ha concesso delle piccole quote nelle società di proprietà del partito. Un partito ormai colonizzato dai salviniani. Che sono ovunque, amministrano le immobiliari del Carroccio, hanno ottenuto nomine delle municipalizzate, gestiscono il potere sui territori che un tempo era saldamente in mano di bossiani e maroniani.

Un potere fatto di architetture finanziarie oltreché politiche. Un esempio? La rete di associazioni usata per ottenere soldi dagli imprenditori. Una strategia per non far passare i soldi dai conti del partito sotto osservazione dei giudici che chiedevano la restituzione dei 49 milioni. Tra queste associazioni culturali, c’è la Più Voci. Svelata da questo giornale nell’aprile 2018 con i relativi finanziatori segreti, l’inchiesta giornalistica ha portato all’apertura di due fascicoli di indagine per finanziamento illecito ai partiti, uno a Roma e uno a Milano. Indagini chiuse e richieste di rinvio a giudizio pronte sul tavolo dei pm. A differenza del ’93, però, il leader è salvo. Rischia di pagare soltanto il tesoriere di sua fiducia.

La questione giudiziaria più spinosa, però, è certamente l’inchiesta per riciclaggio in corso a Genova. I pm della procura ipotizzano che la Lega abbia riciclato parte dei famosi 49 milioni di euro della truffa sui rimborsi elettorali. Nell’ultimo anno e mezzo sono state fatte decine di perquisizioni, inquirenti e investigatori sono andati anche in Lussemburgo. Questa inchiesta preoccupa molto gli ambienti leghisti e non tanto per i collegamenti con il paradiso fiscale dell’Europa. Crea il panico soprattutto per il vorticoso giro di denaro che dal partito è finito a imprese fornitrici della nuova Lega di Matteo Salvini e in parte rientrato a società di esponenti leghisti. Insomma, il sospetto dei magistrati di Genova è che parte dei 49 milioni sia stata riciclata così.

Non è l’unico fronte che insidia il 2020 di Matteo Salvini. La procura di Milano sta conducendo l’inchiesta sul Russiagate italiano, sulla trattativa, cioè, dell’hotel Metropol del 18 ottobre a Mosca per finanziare il partito tramite una maxi partita di carburante. Il negoziato con i russi vicini a Cremlino è stato condotto da Gianluca Savoini, il fedele consigliere per la Russia, di Matteo Salvini. Savoini dopo lo scoop de L’Espresso è finito sotto inchiesta per corruzione internazionale insieme all’avvocato Gianluca Meranda e a Francesco Vannucci, entrambi al tavolo del Metropol insieme all’uomo di Matteo. A incastrare Savoini l’audio dell’incontro, con i dettagli dell’affare. Il 18 ottobre Matteo Salvini non c’era al Metropol. Era a Mosca il giorno prima, il 17 ottobre. Quella sera dopo un convegno pubblico, ha incontrato in gran segreto un pezzo grosso del governo russo, il vicepremier Dymitri Kozak con delega agli affari energetici. Salvini sapeva dell’incontro del giorno successivo al Metropol? Questa è la domanda che da dieci mesi non trova risposta. Anche perché l’ex ministro Matteo Salvini ha preferito non riferire in al Parlamento su questa vicenda. Negando agli italiani una spiegazione di quello strano ottobre moscovita.

Matteo Salvini è un leader forte tra le mura della nuova Lega, ma ha perso l’originaria brillantezza fuori dal palazzo. Da ministro bloccava le navi con i migranti in mezzo al Mediterraneo, e guadagnava consenso. Oggi da senatore rischia il processo per il sequestro dei migranti bloccati a bordo della nave militare Gregoretti, con i 5 Stelle sono pronti a condannarlo con il voto. I sondaggi sono ancora dalla sua parte, anche se lo danno in calo. Salvini è al di sopra del 17 per cento delle politiche del 4 marzo, certo lontano dal trionfo delle europee. Ha la sindrome dell’assedio, lo Zar Salvini. Sotto attacco della magistratura, della stampa, degli avversari. Il 2019 di Matteo Salvini sarà ricordato per le risposte non date, per le menzogne dette sui 49 milioni, sulla Russia, sui finanziamenti ottenuti dagli imprenditori. Piuttosto che dare spiegazioni ha preferito staccare la spina al governo Conte 1.

Voleva i pieni poteri, per non dover dare conto a nessuno. Il piano è fallito. E ora non gli resta che paragonarsi a Donald Trump, vittima come lui, sostiene Salvini, delle inchieste dei pm e dell’opposizione. Il vittimismo sarà sufficiente a vincere la prossima sfida? Tenere assieme, cioè, un partito dove le fronde padane continuano a non vedere di buon occhio la svolta sovranista. Con l’arrivo dei parlamentare eletti al Sud. Quelli che un tempo anche il Capitano chiamava “terùn”. E con Bossi che dal palco del congresso ha ricordato ai presenti, parlamentari del Sud inclusi, che i «meridionali vanno aiutati a casa loro, sennò straripano e finisce come con l’Africa». Passato e presente, nel nome dei 49 milioni.