Viaggiano verso l’Italia su insospettabili barche a vela di lusso. Cariche di disperati a cui negano anche il cibo. Ecco chi sono gli scafisti dell'Est, le loro rotte, il business sulla pelle dei migranti

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Si confondono fra le imbarcazioni dei turisti: hanno la prua snella e le vele candide. Ma a tradirle, quasi sempre, è il grido di liberazione degli insoliti passeggeri: non appena la barca approda a riva loro scendono di corsa, abbandonano gli abiti fradici d’acqua nelle spiagge e poi scompaiono nel nulla.

Mentre il ministro dell’Interno Matteo Salvini ordina la chiusura dei porti, annuncia trionfante che gli sbarchi sono stati azzerati e punta il dito verso le navi delle Ong accusate di essere «taxi del Mediterraneo», c’è un piccolo e silenzioso fenomeno che sta crescendo intorno alle nostre coste, ma al quale il vice premier non ha mai dedicato nemmeno un tweet. Si tratta del traffico di esseri umani a bordo di insospettabili imbarcazioni di lusso: è il nuovo business sulla pelle dei migranti gestito da potenti clan venuti dall’Est, uniti in un sodalizio criminale con organizzazioni turche.

Negli ultimi mesi questi sbarchi sono aumentati a vista d’occhio. E ogni episodio sembra essere la fotocopia di quello precedente: gli scafisti sono di nazionalità russa o georgiana, le navi che trasportano i migranti sono costosi motovelieri intestati a società fittizie e spesso battenti bandiera americana, le fedine penali dei comandanti dell’equipaggio sono rigorosamente immacolate. Per la polizia internazionale si tratta di autentici fantasmi che fanno parte di un rebus criminale ancora tutto da decifrare, riconducibile alla mafia russa, che dopo aver conquistato il monopolio nei furti in appartamento e nel riciclaggio in tutta Europa ora ha affondato le mani anche nel traffico di migranti.

Le regole dei padrini dell’Est sono sempre le stesse, applicate in ogni loro settore criminale: silenzio, discrezione e gestione della manovalanza in perfetto stile paramilitare.

Una disciplina che anche in questo caso dà buoni frutti, con numeri da capogiro: gli investigatori calcolano che per ogni passeggero gli scafisti guadagnino fino a 10 mila euro a testa, in gruppi di circa 70 persone alla volta per una media di 5 mila viaggi all’anno.
Quasi sempre gli scafisti dell’Est percorrono il tratto di mare tra la Grecia e la Puglia, che diventa la scorciatoia per aggirare i “muri” europei. Anche se di recente molti degli sbarchi fantasma sono avvenuti in Sicilia, nella costa del Ragusano, aggirando ogni tipo di controllo. I passeggeri sono spesso curdi o iracheni e la loro fuga verso l’Europa parte dal quartiere Aksaray a Istanbul: è lì che avvengono i primi contatti con queste potenti organizzazioni criminali, come ricostruito da L’Espresso attraverso i racconti dell’orrore fatti dai migranti.


IMPENNATA DI SBARCHI

Negli ultimi mesi gli episodi hanno avuto un’impennata: se ne sono verificati quasi uno alla settimana, anche per via dell’arrivo del clima più temperato che ha dato inizio a una nuova stagione di sbarchi “fantasma” . E insieme agli approdi arrivano le inchieste, che stanno tenendo occupati i magistrati pugliesi e siciliani. Sotto la lente dei pubblici ministeri di Messina, per esempio, c’è uno sbarco avvenuto alcuni mesi fa a Taormina, al largo della spiaggia di Cantone del Faro. Ad avvisare le forze dell’ordine, allora, erano stati alcuni passanti: avevano visto un gommone che faceva avanti e indietro e che trasbordava a riva alcune persone prelevandole da un’imbarcazione ferma in mezzo al mare in balìa di una tempesta. Con molta pazienza, i Carabinieri della Compagnia di Taormina guidata dal capitano Arcangelo Maiello hanno arrestato uno degli scafisti, mentre la Guardia di Finanza ha messo le manette ai polsi del suo complice, che si trovava in mare intrappolato sulla barca a vela, con le tasche ancora piene di dollari e rubli.

Le generalità degli skipper sembrano essere una fotocopia: entrambi russi, trentenni e incensurati. Altra singolare coincidenza, pure stavolta l’imbarcazione risulta immatricolata nel piccolo Stato americano del Delaware, che si trova fra Washington e Philadelphia, famoso per avere uno degli uffici per la registrazione delle barche più attivo di tutti gli Stati Uniti. E dove un motoveliero arriva a costare più di 315.000 dollari.
Batteva bandiera americana - sempre immatricolata nel Delaware - pure la barca a vela di 9 metri chiamata “Tefida” che un anno fa ha trasportato una decina di migranti kosovari, fra cui 2 bambini, fino alle coste di Brindisi, in Puglia. I due skipper russi, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e tuttora in carcere, non hanno mai voluto collaborare con gli inquirenti e si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Qualche settimana prima, lo scenario si era ripetuto a largo di Avola, Siracusa: dentro la barca a vela viaggiavano stipati in condizioni disumane 59 pakistani. L’imbarcazione è stata agganciata in mezzo al mare mosso, e trainata a Marzamemi. I militari italiani hanno fermato i due scafisti: anche stavolta russi, incensurati e per niente collaborativi.
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TESTIMONIANZE FOTOCOPIA

Molto somiglianti - ma secondo gli inquirenti autentiche - sono anche le testimonianze di chi quelle imbarcazioni le ha prese per necessità, pagando in contanti una cifra salata per raggiungere l’Europa. Fra loro c’è quella di Joseph, trentenne iracheno: «Ho lasciato l’Iraq perché mia moglie era in pericolo per via del suo comportamento troppo occidentale. Da Erbil siamo arrivati ad Ankara, da Ankara a Istanbul. Qui, ad Aksaray, siamo stati avvicinati da A. che ci ha trovato il contatto con lo scafista».

Il quartiere di Aksaray nei racconti di questi migranti rimane una costante fissa: è lì che, a distanza di mesi gli uni dagli altri, i profughi vanno a colpo sicuro per organizzare la fuga verso l’Europa. Sono avvicinati per strada o nei parchi da malavitosi turchi che fanno da interpreti e vengono portati a qualche chilometro dal porto della città, da dove partono le imbarcazioni fantasma. Ed è qui che i migranti conoscono gli scafisti russi.
Joseph e sua moglie spiegano di aver pagato per il viaggio 26 mila dollari in contanti: «A guidare la nostra imbarcazione erano in due russi: uno più giovane e l’altro più vecchio. Si capiva subito chi dei due fosse il comandante, perché impartiva gli ordini. A noi diceva solo di stare zitti». «Abbiamo viaggiato per sei giorni interi, chiusi nella stiva», racconterà ancora alle forze dell’ordine, «durante il lungo viaggio non ci è stato dato cibo, ma soltanto acqua. Loro cucinavano davanti a noi ma non ci davano nulla da mangiare. Potevamo nutrirci solo delle cose che avevamo fortuitamente portato con noi: gallette secche e qualche pezzo di frutta».
Amin, invece, è fuggito dall’Iran e dalla follia religiosa del suo Paese dopo il suicidio della fidanzata, disperata perché la sua famiglia l’aveva promessa in sposa a un altro uomo. Per raggiungere l’Italia, lui ha pagato 12 mila dollari. E prima di partire ha dovuto aspettare 11 giorni chiuso in una stanza: «Fra di noi migranti non parlavamo, abbiamo viaggiato ammassati in condizioni igieniche disastrose», ha raccontato, «quando un giorno sono salito a fumare una sigaretta e ho tentato di parlare con uno degli scafisti, lui mi ha fatto capire che se tenevo alla mia vita era meglio che non facessi domande».


Il SODALIZIO CON I GEORGIANI

A fotografare questo nuovo business delle organizzazioni criminali dell’Est Europa è anche l’ultimo rapporto della Direzione investigativa antimafia, che nell’ultimo anno registra decine di casi. Fra gli scafisti, inoltre - rimarcano i poliziotti dell’Interpol - si nota un considerevole aumento di georgiani che hanno di recente acquisito la cittadinanza russa. Uno stratagemma, questo, sempre più utilizzato dagli esponenti dai clan di Tbilisi: il Paese governato da Vladimir Putin ha reso le estradizioni negli altri Paesi quasi impossibili e così loro utilizzano il passaporto russo come uno scudo con cui proteggersi in caso di mandato di cattura internazionale.

A Bari, per esempio, la città dove ha costruito la sua villa il sanguinario capoclan georgiano Merab Dzhangveladze detto “Jango” e che ormai si è trasformata nel vero quartier generale della mafia russo-georgiana nonché centrale di ricettazione di documenti falsi, si calcola che in soli sei mesi siano arrivati via mare più di trecento immigrati irregolari. Mentre le imbarcazioni sequestrate dalla Guardia di Finanza in pochi mesi sono state più di dieci. Nel carcere della città pugliese, per esempio, si trova da alcuni mesi uno scafista georgiano di 38 anni, che gli inquirenti ritengono essere uno dei tasselli dell’organizzazione criminale: lo scorso agosto ha trasportato fino a Gallipoli un gruppo di migranti iracheni fra cui alcuni bambini. Secondo chi indaga, prima di essere arrestato aveva portato a segno decine di traversate.

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MERCENARI UCRAINI

Fra i mercanti di uomini, poi, ci sono anche molti ucraini. Solo negli ultimi 4 anni sono stati più di 60 gli scafisti arrestati originari di Kiev. Quasi la metà di loro si trova nelle carceri siciliane. Sono gli skipper più resistenti alle tensioni e alla fatica: riescono a condurre le imbarcazioni anche durante le condizioni marittime più critiche e quasi sempre raggiungono il porto senza complicazioni. Prima di partire si allenano per lunghi mesi al largo delle cose di Smirne. Al soldo delle organizzazioni criminali turche, spesso arrivano da cittadine devastate dalla guerra, lavorano come autentici freelance e vengono reclutati per circa 3 mila euro a viaggio. Quasi sempre incensurati, una volta arrestati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina patteggiano la pena e vengono rimpatriati. Poi tutto ricomincia con un nuovo carico di “merce”.

La Procura di Brindisi, per esempio, è ora al lavoro sulla vicenda di tre ucraini quarantenni che lo scorso agosto hanno trasportato a bordo di una barca a vela 73 migranti di nazionalità irachena scaricandoli fino al porto della città. «Abbiamo agito per necessità economica», sono state le uniche parole che hanno detto ai magistrati. Il primo a tracciare l’anatomia di questa nuova tipologia di scafisti mercenari è stato il commissario Carlo Parini, fino a qualche mese fa alla guida del Gicic, Gruppo Interforze di contrasto all’immigrazione clandestina, team unico in Italia creato nel 2006 dalla Procura della Repubblica di Siracusa e sciolto pochi mesi fa per volere del nuovo governo perché, secondo Salvini, «gli sbarchi in Italia non ci sono più».