Ponti, dighe, ferrovie: decine di grandi opere sono ferme anche se già finanziate con montagne di soldi. In attesa del Recovery fund, il nostro Paese conti con il suo immobilismo

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A Milano il Seveso esonda puntualmente ogni autunno, da almeno sei anni sono a disposizione 120 milioni di euro per realizzare le vasche di compensazione, ma i lavori sono praticamente fermi.

A Palermo da cinque anni sono stati stanziati 17 milioni di euro per mettere in sicurezza il ponte Corleone, una sorta di ponte Morandi di Genova come importanza strategica per la città visto che collega i due tratti principali della circonvallazione, ma ad oggi non un euro è stato speso.

Sono due fotogrammi che uniscono da Nord a Sud il Paese che non sa spendere i soldi che ha già in cassa. E ne ha tanti, in pancia, divisi in mille rivoli tra enti locali, Stato e società controllate come Rfi e Anas. Almeno 120 miliardi di euro non spesi, a voler essere buoni, secondo i dati del dipartimento della Coesione territoriale e anche secondo una ricerca che hanno condotto in solitaria gli ex responsabili della Struttura di missione di Palazzo Chigi tra fondi europei, fondi statali per investimenti e contratti di programma con Rete ferrovie italiane e Anas.

L’Italia che da decenni in alcuni casi ha nel cassetto decine e decine di miliardi di euro mai spesi, è la stessa che adesso non vede l’ora di incassare i fondi promessi dall’Europa per affrontare la crisi economica causata dal Covid-19.

I SOLDI NEI CASSETTI
In questi mesi dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte ai sindaci, passando per governatori e amministratori delle Province, è iniziata la corsa ad annunciare le mirabolanti opere che si potranno fare con il Recovery fund: 207 miliardi di euro, ai quali si aggiungeranno 80 miliardi di fondi di Bruxelles della programmazione 2021-2027. E poco importa che tra questi “nuovi” progetti ci siano spesso iniziative che in alcuni casi erano già finanziate, ma che le amministrazioni o le società che dovevano realizzarle non hanno speso.

Solo sui fondi europei, la Corte dei conti ha segnalato che dei 75 miliardi di euro della programmazione 2014-2020 i pagamenti ammontavano all’inizio di quest’anno al 27 per cento: insomma, il 70 per cento dei fondi era nel cassetto. Altri 11 miliardi sono fermi sul fronte dissesto idrogeologico, poi ci sono i quasi 30 miliardi in pancia all’Anas solo per i ponti, i 6 miliardi rimasti fermi di Comuni e Province, un altro miliardo non speso per la depurazione e una trentina di miliardi di grandi opere che da anni non vanno avanti. Il conto fa appunto 120 miliardi di euro che l’Italia già ha e non riesce a spendere in maniera celere.

GLI APPALTI BLOCCATI
Mentre si discute su come utilizzare il Recovery fund, in questo momento in Italia ci sono una miriade di appalti che vanno a rilento, sono fermi del tutto o addirittura non sono mai stati avviati. Solo sul fronte del dissesto idrogeologico sono bloccati dal 2014 appalti per 11 miliardi di euro mentre altri 14 miliardi sono impegnati giuridicamente ma i lavori si trascinano da anni e anni. Qualche esempio? «Sul Seveso è fermo da cinque anni uno stanziamento pari a 120 milioni di euro, perché i Comuni non hanno i tecnici per portare avanti gli appalti», raccontano Erasmo D’Angelis e Mauro Grassi, ex dirigenti della Struttura di missione di Palazzo Chigi: «Di interventi fermi ne possiamo contare a decine: in Friuli Venezia Giulia per la messa in sicurezza del Tagliamento restano inutilizzati 400 milioni, in Veneto occorre avviare subito lavori sul fiume Astico, fermi qui 200 milioni. In Piemonte i lavori sul Dora Riparia non sono mai partiti, restano così nel cassetto 150 milioni già stanziati. Per non parlare del Tevere, dove sono programmati da anni e anni interventi per un miliardo di euro».
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Non va meglio su altri fronti. Nel 2015 il governo Renzi ha firmato i Patti, un piano di aiuti da 21 miliardi di euro che solo per la Sicilia e i tre grandi Comuni di Palermo, Catania e Messina, valeva 3 miliardi: di questi soldi sono stati spesi poche decine di milioni. E un motivo c’è: mancano spesso i progetti, perché le amministrazioni non hanno i tecnici per farli. Così 300 milioni di euro stanziati per mettere in sicurezza le strade dell’Isola non vengono spesi perché le Province non sanno a chi far fare un progettino per asfaltare le strade.

Emblematico il caso di Palermo: il Comune della quinta città d’Italia per numero di abitanti oggi ha un solo dirigente tecnico. Si chiama Nicola Di Bartolomeo e si occupa di piano regolatore, centro storico, edilizia, urbanistica, appalti pubblici e perfino della protezione civile. Risultato? I 350 milioni che sono stati dati al Comune sono praticamente fermi. Ma proprio il Comune di Palermo è stato il primo a presentare al governo Conte le proposte per gli interventi da realizzare con i nuovi soldi europei del Recovery: e tra i progetti sono saltati fuori interventi per i quali il Comune aveva già da anni dei finanziamenti e non li ha spesi, a partire dalla messa in sicurezza del Ponte Corleone.

In Calabria invece con il Recovery c’è chi vorrebbe concludere i lavori, che vanno avanti da 31 anni, per la diga del Melito: per i ritardi nell’opera il ministero delle Infrastrutture ha appena ritirato la concessione al Consorzio che doveva realizzare la diga e ha chiesto indietro 120 milioni di euro di fondi mai spesi per una enorme incompiuta.

I GRANDI APPALTI AL PALO
Il problema dei fondi in cassa e non spesi non riguarda soltanto Province e Comuni. Nei giorni scorsi il ministero delle Infrastrutture ha minacciato la Regione Piemonte di revocare per ritardi nell’avvio delle opere un finanziamento da 18 milioni per la nuova stazione ferroviaria Rebaudengo a Torino e un altro finanziamento da 380 milioni per alcuni lotti della Tav, la Torino-Lione. Le grandi opere ferme, nonostante i finanziamenti, sono decine: secondo uno studio condotto da Grassi e D’Angelis tra le opere finanziate e al palo ci sono l’autostrada pedemontana Lombarda (2 miliardi di euro), la realizzazione della terza corsia tra Firenze e Pistoia (3 miliardi di euro) e diversi tratti della linea veloce ferroviaria Napoli-Bari (2 miliardi di euro).

Soltanto l’Anas dal 2016 ha in pancia quasi 30 miliardi di euro per monitorare gli oltre 3.500 ponti che attraversano la sua rete stradale, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia: ad oggi di questa cifra ha speso poche centinaia di milioni. A gennaio 2020 la stima era di appena 200 milioni.

In tema di ponti e viadotti anche sul fronte delle Province le cose non vanno meglio. Solo loro ne gestiscono circa 6 mila: «Il problema vero sono le norme: per ristrutturare il ponte Teodorico ho perso mesi perché pur essendo stato realizzato in calcestruzzo e non proprio agli inizi del Novecento c’erano problemi di vincoli e si è dovuta riunire una commissione ministeriale per darmi il via libera ai lavori», dice Michele De Pascale, presidente dell’ente di Ravenna e dell’Unione province italiane: e sindaco delal città «Per fare un piccolo intervento su un viadotto ho dovuto attendere il parere di 20 enti per iniziare i lavori. Tutto si stava fermando perché nidificavano degli uccelli: ma con queste norme come possiamo spendere in poco tempo i fondi del Recovery?».

Un altro ente che ha in pancia miliardi e miliardi e che non riesce a spenderli celermente è Rete ferrovie italiane. Il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano ha convocato i vertici di Rfi per fare un punto su alcuni contratti strategici, come la Napoli-Lecce-Taranto, la Salerno-Reggio e la linea veloce Palermo-Catania-Messina. «Abbiamo scoperto gravi ritardi e avviato in alcuni casi l’iter per le penalità, visto che si tratta di opere finanziate in alcuni casi quasi dieci anni fa», dice il ministro. Ad esempio, sulla linea veloce Messina-Palermo-Catania nel 2013 sono stati stanziati 6 miliardi di euro, ad oggi ne sono stati spesi poco più di un miliardo: ma nel 2019 l’avanzamento dei lavori è stato pari ad appena 26 milioni di euro. In pratica l’opera si è quasi fermata: «Problemi burocratici legati alle autorizzazioni in ritardo date dalla Regione», hanno detto i vertici di Rfi.

I PIANI DEL GOVERNO
Una macchina che non cammina, quella della burocrazia italiana. Non a caso il ministro Provenzano ha proposto un piano per aiutare gli enti che dovranno spendere i nuovi fondi europei: «Dobbiamo avviare almeno 10 mila assunzioni di giovani professionisti, una battaglia che sto cercando di portare avanti in Consiglio dei ministri. Alla luce dei dati della spesa sui fondi Ue e sui fondi della Coesione non possiamo più rinviare». Provenzano sul suo tavolo ha l’ultimo monitoraggio sulla spesa dei fondi per investimenti. «Ad esempio, per i programmi complementari di Azione e coesione, ben 7 miliardi di euro dati a Regioni, ministeri e Comuni, dal 2014 a oggi i pagamenti sono fermi al 5,5 per cento sui fondi Europei delle Regioni meno sviluppate, quelle del Sud, su una dotazione di 17,7 miliardi di euro in sei anni la spesa è stata pari a 6 miliardi, il 34 per cento», aggiunge il ministro.

Per accelerare la spesa, Provenzano ha avviato una riprogrammazione con le Regioni per quasi 10 miliardi di euro: «Ma questa volta abbiamo indicato noi gli obiettivi da raggiungere anche alla luce dell’emergenza Covid», sottolinea: «Di certo, però, adesso con il Recovery e i nuovi fondi della programmazione 2021-2027 dobbiamo aiutare la macchina amministrativa: con le assunzioni e cambiando il sistema delle assistenze tecniche esterne che costano milioni di euro. In questi anni si sono creati rapporti opachi tra dirigenti pubblici e le società private, il tutto con scarsi risultati. Non possiamo affidare tutto alle società di consulenza, assumiamo giovani e tecnici preparati che possano aiutare le amministrazioni».

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha proposto invece l’idea di strutture commissariali, sul modello Arcuri per l’emergenza Covid. Una cosa è fuor di dubbio: la scommessa vale tanto, anzi tantissimo. In ballo ci sono quasi 300 miliardi in arrivo da Bruxelles che rischiano di impantanarsi nelle pieghe della burocrazia e questa volta il Paese, alle prese con la più grande crisi economica dal dopoguerra, non può davvero permetterselo.

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