Pratiche illegali, ritmi massacranti, straordinari non pagati e burn out: sono queste le condizioni dell’industria tecnologica italiana che produce i nostri software. «È ora di denunciare»

Quella del cash back di Natale, o “crash back”, come è stato prontamente ribattezzato, è solo l’ultima sconfortante performance dei servizi tecnologici italiani. Lo scorso aprile era toccato al portale dell’Inps, andato in tilt durante il click day per il bonus alle partite IVA, attribuito in seguito a un presunto attacco hacker, poi è stato il turno della piattaforma del ministero dell’ambiente per il bonus bici. Per non parlare di tutti i problemi che hanno avuto i docenti con le loro mail istituzionali o del funzionamento mai perfetto di Immuni. Insomma, l’Italia tecnologica, al netto dei proclami, stenta a decollare. E se ogni volta che va in tilt qualcosa è un rincorrersi di accuse, rimpalli di responsabilità e sfuriate dei relativi ministri, ciò di cui spesso ci si dimentica è che dietro quei sistemi e quelle piattaforme non c’è un’ eterea mano invisibile che cala la tecnologia dall’alto, ma dei lavoratori, e un sistema di lavoro che si muove su meccanismi, questi sì, quantomeno nebulosi.

In molto pensano che l’ecosistema dell’IT (Information Technology) sia ancora circondato da un alone di mitologia, e i lavoratori tecnologici sono percepiti come adolescenti geniali che battono su una tastiera e fanno magie. «Questo non ha alcun corrispettivo nella realtà: dietro questa rappresentazione ci sono persone con delle idee, che hanno qualcosa da dire ma, soprattutto, ci sono lavoratori, che spesso non vedono rispettati e a volte neppure conoscono i loro diritti».

A parlare è un portavoce di Tech Workers Coalition Italia (TWC - Italia), sezione locale dell’omonima coalizione internazionale nata nella Silicon Valley nel 2014. Consapevole della specificità dei problemi del settore in Italia, ben diversi da quelli statunitensi, la coalizione italiana ne condivide comunque l’obiettivo primario di promuovere l’organizzazione e la tutela dei diritti dei lavoratori tech. Per questo si sono attivati dalla scorsa primavera e a metà novembre hanno lanciato la campagna di sensibilizzazione “Alziamo la testa”, con lo scopo di iniziare a informare sulle condizioni lavorative nell’industria tecnologica e creare uno spazio di confronto tra gli addetti del settore. Nel lungo periodo TWC – Italia vorrebbe arrivare a raccogliere le istanze di tutti i lavoratori impattati dalla tecnologia, ma in questo momento si concentra su due categorie, che sono quelle meno organizzate in Italia: i tecnici, come programmatori o sistemisti, e i creativi, tra cui designer e grafici.

Gli oltre 300mila lavoratori del comparto sono spesso definiti gli operai del nuovo millennio, ma senza rappresentanti sindacali, né un contratto nazionale di riferimento: sono infatti inquadrati come metalmeccanici, addetti alle telecomunicazioni o al commercio. Questo, sommato alla frammentazione del settore, rende di fatto complicato organizzarsi in azienda e anche solo pensare a uno sciopero. «Il problema di fondo, in realtà, è che molti di noi si sentono già privilegiati per avere un lavoro e uno stipendio, così accettano di sottomettersi alla violazione dei propri diritti e a pratiche illegali, come il body rental», spiegano da TWC - Italia.

Il body rental è la pratica alla base della vita lavorativa della maggior parte degli informatici italiani. Si tratta di un’area grigia, spesso confusa o mascherata dietro quella che le aziende definiscono “consulenza”, in cui di fatto si trattano i lavoratori come merce, assumendoli solo formalmente per poi rivenderli ad aziende “clienti”, spesso a più livelli.

Il meccanismo lo spiega Marco, programmatore, ex dipendente di una nota azienda milanese: «Tre anni fa sono stato assunto dalla mia ex azienda, da lì mandato in affitto presso una seconda, che a sua volta mi subaffittava (spacciandomi per uno dei suoi dipendenti e ritoccando il mio cv) a una terza. Qui ero assorbito in un team con dipendenti (pochi), e “consulenti” come me, ma di altre aziende (tanti), e subordinato alla gestione della terza azienda. Il mio "cliente" era diventato, di fatto, il mio datore di lavoro».

L’esperienza è comune a tanti lavoratori, come conferma Dario, giovane programmatore ed esperto di sicurezza informatica: «Mi ero appena laureato quando sono stato contattato da un’azienda romana, ma sono stato assunto solo dopo aver sostenuto il colloquio con un loro cliente per lavorare su un progetto pubblico. Li sono stato trattato come un dipendente, ma di serie b. Non avevo accesso alla mensa o al parcheggio. Spendevo 300 euro al mese in benzina e il resto per pagare il parcheggio su strada e una stanza in affitto. In un anno e mezzo ho visto la sede della mia azienda solo per ritirare un computer portatile e finito il progetto sono stato buttato via».

Marco e Dario sono nomi di fantasia, perché gli intervistati temono che, in un ambiente in cui è necessario cambiare azienda in media ogni due anni, rischierebbero ripercussioni.

In Italia il body rental è illegale: in base al d.l 276/2003 solo le agenzie per il lavoro autorizzate dal ministero possono fare intermediazione di manodopera e dal 2011 il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro -quello che mira a colpire il caporalato per capirsi - è entrato nel codice penale tra i delitti contro la persona e la libertà individuale.

La pratica è il risultato del proliferare, a partire dagli anni 2000, di sedicenti aziende informatiche o di consulenza, che si limitano a trovare “risorse”, cioè lavoratori su cui fare profitto. Le aziende “clienti”, a loro volta, usano il meccanismo per sgravarsi dei costi di gestione della manodopera e delle relative responsabilità, come i trasferimenti, i licenziamenti o le possibili vertenze.

Ma il punto non è solo l’illegalità, ma ciò che questa prassi comporta. Come denuncia la campagna di TWC-Italia, il meccanismo spesso si accompagna a ritmi di lavoro frenetici, con giornate lavorative che vanno ben oltre le otto ore, straordinari quasi mai pagati e ambienti tossici. Non solo, le conseguenze sulla salute non si limitano ai problemi fisici tipici del lavoro d’ufficio, ma arrivano fino all’isolamento sociale, l’alienazione e il burn-out.

Luca, che ha iniziato a lavorare durante la laurea magistrale, mai conclusa proprio a causa di questa tipologia di vita lavorativa e trasferitosi poi all’estero, racconta: «In quei due anni sono finito in burn-out, ho attraversato un periodo di depressione e ansia che mi ha portato in terapia e a dover assumere ansiolitici. La direzione continuava a prendere tutte le offerte di lavoro disponibili e spesso capitava che vendesse la stessa persona a più clienti contemporaneamente, incurante della nostra salute. Era praticamente prostituzione delle nostre capacità per soddisfare il volere dei clienti».

Ciò da un lato è dovuto alla carenza di personale, dall’altro al fenomeno del crunch, il ritmo di lavoro massacrante fortemente consigliato, se non imposto, ai lavoratori nel periodo che precede la conclusione di un progetto. Conosciuto soprattutto nell’industria dei videogiochi, il crunch è ormai diventato tipico del modus operandi di gran parte delle aziende informatiche, come spiega Luciano, sviluppatore, che ha lavorato per diverse aziende milanesi e romane nell’arco di undici anni: «Ogni volta che bisogna consegnare un progetto ci si trova a stare in ufficio tre o quattro ore in più, anche la sera e nei weekend, per diverse settimane di seguito, per riuscire a finire in tempo. Che siano pagati o no, diventa alienante. E con lo smart working è diventato ancora più difficile capire quando inizia e quando finisce la giornata lavorativa».

Il sistema di scatole cinesi e di rotazioni di personale di varie aziende di “consulenza” sui progetti, uniti all’assenza di formazione continua e ai ritmi di lavoro massacranti, non possono non avere conseguenze sul risultato finale.

«Gli effetti di questo ambiente lavorativo sulla qualità del codice prodotto erano disarmanti. Nulla di quello che consegnavamo era davvero pronto per la produzione, privo di bug o in grado di funzionare a lungo senza bisogno di pesanti interventi di manutenzione. Personalmente, ho ancora una nota con tutti i clienti pubblici e privati per cui ho lavorato e mi assicuro di non utilizzare nulla di loro (ho cambiato banca e operatore telefonico per questo) », conclude Marco.

Anche secondo TWC - Italia questi fenomeni sono la norma: «Che ci siano bug è normale, ma ogni volta che si lancia una nuova piattaforma o prodotto vengono fuori problemi tecnici anche banali che derivano da questo modo di lavorare più che dall’incompetenza di qualcuno». E questo, chiaramente, si ripercuote sulla qualità dei servizi offerti ai cittadini.

Come sottolinea la campagna “Alziamo la testa”, di fronte alle continue sfide economiche, sociali ed ecologiche, è importante che la tecnologia sia davvero uno strumento per risolvere i problemi degli individui e della collettività. Per questo, quello che vuole mettere in campo TWC - Italia nei prossimi mesi è un attivismo ad ampio spettro che coinvolga nuovi interlocutori, a partire dalla campagna in programma per il 2021 che sarà rivolta agli studenti universitari, fino all’apertura a nuove tematiche come le discriminazioni di genere e delle minoranze nei lavori tech. Perché, parallelamente alle tecnologie, possano evolversi anche i diritti dei lavoratori che le producono.