Nell'elenco letto da L'Espresso i pezzi da novanta della mafia calabrese. Narcotrafficanti ai domiciliari e autorizzati per due ore giorni a uscire per «accudire gli animali». Altri finiti in storie di trattative parallele con pezzi dello Stato. Il fratello del capo dei capi dell'organizzazione. Il boss della Lombardia. E quelli implicati nei sequesti di persona degli anni 80-90

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Oltre 40 i detenuti di 'ndrangheta scarcerati. Boss, colonnelli, soldati semplici, complici del sistema. Nomi pesanti, con condanne definitive o in attesa di giudizio. Giovani leve o anziani padrini che hanno attraversato la storia criminale della mafia calabrese. Scorrendo l'elenco riservato del Dipartimento dell'amministrazione pentitenziaria, una cosa è certa: le disposizioni dell'emergenza Covid19 hanno garantito alle cosche di 'ndrangheta di rimpolpare i ranghi con pezzi da novanta della gerarchia mafiosa. Tralasciando le polemiche e i giudizi di valore sulle scarcerazioni, c'è da fare una premessa: tutti, nessuno escluso, hanno diritto alle migliori cure. L'antimafia si pratica con i codici e seguendo la Costituzione. E non brandendo clava.

È interessante, però, partire dai nomi. Molti dei quali condannati in via definitiva. Altri invece in attesa di giudizio. Cominciamo allora da questo piccolo esercito fino a poco tempo fa recluso e da qualche settimana a casa dopo che i tribunali di sorveglianza gli hanno concesso i domiciliari sulla base del rischio contagio da coronavirus.

Scorrendo l'elenco troviamo la geografia criminale della 'ndrangheta. Dalla Calabria fino alle Alpi, passando per la Capitale. Dalle anguste celle dei reparti Alta Sorveglianza, un gradino sotto al più temuto 41 bis, alla gabbia domestica, nei regni, cioè, dove un boss esprime tutto il proprio potere senza doversi neanche spostare dalla poltrona. I provvedimenti di scarcerazione sono diversi, alcuni prevedono delle cautele disponendo, per esempio, l'uso del braccialetto elettronico, altri, invece, lasciano la massima libertà anche a figure centrali nello scacchiere del sistema criminale. C'è da scommetterci: quanti padrini affiancheranno alla fede per la madonna e san Michele Arangelo la devozione per quel virus chiamato Covid che gli ha concesso di lasciare gli spazi inumani della galera? Solo il tempo darà il responso.


Il narco e gli animali
Il caso di Sebastiano Giorgi, classe '67, è l'emblema di questo caos giurisprudenziale che ha provocato polemiche a non finire: sulla base di cosa vengono scarcerati i boss? Va dato a tutti il braccialetto elettronico? Che tipo di vigilanza va prevista? Insomma, grande confusione e poche linee guida certe.
Giorgi è affiliato all'omonima cosca, conosciuta anche con il nomignolo “Suppera”. La sua carriera è scritta nelle sentenze che lo hanno condananto in via definitiva a 21 anni per traffico di droga e di armi, «in ossequio alle disposizioni in materia di contenimento del contagio da Covid19» gli è stato concesso il 23 marzo scorso di trasferirsi nella sua San Luca, il paese dell'Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, ricosciuto dagli affiliati di tutto il mondo come la “mamma” della 'ndrangheta. Dalla massima sicurezza del carcere di Sassari al luogo in cui tutto è cominciato. Il narco-boss della 'ndrangheta è però più fortunato di altri. Chi ha disposto la scarcerazione non ha previsto particolari obblighi, anzi: a L'Espresso risulta, infatti, che oltre a non dover indossare il braccialetto elettronico, potrà( con un permesso giornaliero) assentarsi due ore. Un permesso valido non per prendersi cura di un familiare ammalato o in difficoltà, ma per prendersi cura degli animali alle pendici della montagna. Si spera dotato di mascherina. Sarà l'occasione giusta per scambiare due chiacchiere con l'attuale boss del paese. Perché no?


Dai sequestri agli affari
San Luca si ripopola grazie all'emergenza Covid19. Anche grazie all'arrivo di un padrino della vecchia guardia 'ndranghetista tuttavia ancora molto influente: Francesco Mammoliti classe 1949. Colonnello della famiglia che porta il suo cognome conosciuta anche con l'alias “Fischiante”. Un'autorità a San Luca, i Mammoliti “Fischiante”. Don Ciccio Mammoliti è stato coinvolto in numerose vicende giudiziarie, era un boss della famigerata Anonima sequestri. Il suo nome, infatti, lo ritroviamo nelle inchieste sul sequestro di persone dell'ingegnere Carlo De Feo. Tra le doti di don Ciccio quella di farsi passare per morto: vent'anni fa un'inchiesta iniziata sulle dichiarazione del nipote venne archiviata per «morte del reo». Ma lui stava benissimo, tanto che dopo aver scontato la pena e rimesso ai domiciliari non è sceso dal trono. Poi un'altra inchiesta, il carcere. E ora di nuovo i domiciliari.


Il Gordo e quella trattativa dopo Duisburg
A San Luca è tornato anche Antonio Romeo, detto il “Gordo”. Narco della' ndrangheta di primissimo piano. Contatti internazionali, con emissari dei cartelli colombiani di Medellin, e una condanna definitiva a 17 anni per traffico di droga. Il nome del “Gordo” spunta in una vicenda mai chiarita di una presunta trattativa per l'arresto dell'allora latitante Giovanni Strangio, super ricercato, poi catturato in Olanda, per la strage di Ferragosto 2007 a Duisburg, in Germania. Una trattativa che sarebbe stata condotta da un carabiniere, un avvocato e il parroco don Pino Strangio di San Luca. Il Gordo all'epoca latitante doveva essere una pedina di scambio in uno scacchiere di favori e cortesia per poi arrivare il ricercato del momento, il killer di Duisburg. Vicenda che non ha avuto alcun risvolto penale, ma gli atti sono stati depositati nel più importante processo ai clan di Reggio Calabria in corso in questo momento nella città dello Stretto. Dove nel frattempo è tornato Demetrio Serraino, nato nel '47, fratello di don Ciccio Serraino, tra i padrini più influenti della vecchia 'ndrangheta.


Il fratello del capo dei capi
E del gotha della mafia calabrese fanno parte anche i Morabito, guidati da Giuseppe Morabito, detto “u Tiradrittu”, rietnuto uno dei capi supremi della 'ndrangheta. Suo fratello Rocco, detto “u Pilusu”( il peloso), è tornato a casa ad Africo. Il gruppo del Tiradrittu ha ramificazioni all'estero e in Lombardia, dove vanta business illegali ma soprattutto legali: sono stati i primi a infiltrare l'ortomercato di Milano. I “Tiradritti” sono imparentati con il latitante e narcotrafficante Rocco Morabito, evaso dal carcere uruguaiano dopo l'arresto che aveva fermato una fuga che durava da anni. Con Rocco “u Pilusu” è uscito dalla massima sicurezza anche il suo braccio destro: Domenico Antonio Moio. La coppia seppure a distanza si è riformata.
Chi ha lasciato il carcere per i domiciliari è anche Pasquale Lombardo: di Brancaleone, in attesa di giudizio, è stato arrestato in un'inchiesta sulle nuove leve della mafia calabrese. É ritenuto un vero capo dagli inquirenti. E negli atti di quell'inchiesta un episodio, tra gli altri, indica quanto conta la sua presenza fisica sul territorio. Con il fratello e i sodali organizzano una vera e propria caccia all'uomo per scovare un rapinatore e fargliela pagare per aver violato il territorio.


Gli uomini dei Piromalli
Pure la piana di Gioia Tauro si ripopola di boss al tempo del covid. È tornato a casa Domenico Longo: 53 anni, condannato per associazione mafiosa, è considerato il reggente della 'ndrina Longo di Polistena. E sempre di queste zone è anche Vincenzo Bagalà, che però è in attesa di giudizio: secondo i pm è soggetto di massima fiducia dei Piromalli, del gotha della 'ndrangheta dunque. Della stessa “famiglia” è anche Domenico Pepè, adesso ai domiciliari grazie alla pandemia.


I boss del Nord
Risalendo la penisola, arrivamo in Lombardia, nella regione che più di tutte ha pagato un prezzo altissimo per la pandemia. Anche qui ci sono state scarcerazioni nell'ambiente alto della 'ndrangheta. Tra questi c'è Pio Candeloro: 56 anni, detenuto a Siena, capo della cosca di Desio e personaggio centrale nelle dinamiche della 'ndrangheta lombarda, quella svelata dalla maxi inchiesta “Crimine – Infinito” del 2010.
Altro nome eccellente è Domenico Natale Perre, uno dei sequestratori delll'imprenditrice Alessandra Sgarella. Boss originario di Platì, il paese da cui sono partite le cosche Perre-Barbaro-Papalia per conquistare il mondo: da Buccinasco, in Lombardia, fino in Australia. Non sono i soli. Ci sono altri “lombardi” delle 'ndrine scarcerati: Saverio Catanzariti e Alfonso Rispoli. E c'è pure Leonardo Priolo della cosca di Mariano Comense. Profondo Nord. Come l'Emilia. Dove uno dei capi del gruppo legato alla potente cosca Arena di Isola Capo Rizzuto è uscito dal carcere e si trova ai domiciliari: Paolo Pelaggi. Dall'inchiesta sugli affari di Pelaggi, l'architetto di una truffa carosello milionaria, è nata l'inchiesta Aemilia, tra le più imporanti indagini contro la 'ndrangheta settentrionale. Il gruppo di Pelaggi è stato condananto oltreché per il business delle truffe anche per aver messo una bomba davanti all'agenzia delle entrate di Sassuolo, che si era permessa di interferire sugli affari oscuri del clan.

L'elenco dei nomi che compongono l'esercito delle 'ndrine fuoriuscito dai penitenziari è ancora lungo. Sono storie di soldati e gregari, di giovani che gestiscono piazze di spaccio enormi come quella di San Basilio a Roma. Tutti uniti dal silenzio, nessuno che tradisce i capi. Fedeli ai mammasantissima che li hanno arruolati.