Il diritto di abitare
Un’emergenza chiamata casa: il disastro delle politiche abitative in Italia
Pochi fondi, sussidi a intermittenza, liste di attesa infinite e gente costretta ad occupare tagliata fuori dagli alloggi. Una famiglia su cinque ora non ce la fa
L’anziano inquilino dell’appartamento al quarto piano era passato a miglior vita già in primavera. Viveva solo, non aveva figli e giunti all’autunno nessuno si era fatto avanti per reclamare l’eredità di quella casa sulla Tiburtina. Nel frattempo la vita di Marisa e dei suoi due figli scivolava velocemente verso la sopravvivenza: ha vissuto fino al 2015 in un centro per l’assistenza alloggiativa temporanea, ovvero un residence comunale - un ghetto, come lo chiamano gli assistenti sociali -, poi il centro è stato chiuso e per qualche mese ha dormito in auto, finché non le è stato riconosciuto il buono casa.
Nell’aprile 2020 le è stata tolta anche questa agevolazione e Marisa, a 42 anni, si è trovata nuovamente per strada. È fra le lacrime che a dicembre ha forzato la serratura di quell’appartamento al quarto piano: «Un minuto dopo ho chiamato la Polizia Locale per autodenunciarmi. Nonostante le difficoltà, ho sempre agito secondo le leggi e non vado fiera di quel gesto, dettato dalla disperazione».
Leggi a singhiozzo, fatte di bandi privi di continuità e piani casa a termine, privi di una programmazione a lunga gittata che possa aiutare chi è davvero in difficoltà. Marisa, occupando quell’alloggio, ha inoltre violato l’articolo cinque del decreto legge Renzi-Lupi del 2014 sul Piano Casa, secondo il quale chi occupa abusivamente un immobile non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi e «perde moltissimi diritti. In questo caso, questa mamma ha dovuto dire addio al suo posto in graduatoria per l’assegnazione di una casa popolare, che aspetta da dieci anni. E le è stato revocato persino il diritto al medico di base. Quella norma è assurda», spiega Francesca Danese, epidemiologa sociale, ex assessore ai Servizi Sociali del Comune di Roma ai tempi della giunta di Ignazio Marino, che prosegue: «La storia di Marisa, che stiamo cercando di aiutare, non è un caso isolato. Nelle città metropolitane l’emergenza casa sta diventando un problema serio e, solo a Roma, ci sono 200mila persone in difficoltà, 13.544 famiglie in graduatoria per un alloggio pubblico, 10 mila persone (ovvero mille famiglie) che hanno occupato abusivamente un’abitazione. Ogni giorno gli agenti sfrattano almeno dieci famiglie, mentre le domande per il bonus affitto (da 245 euro), istituito per l’emergenza Covid, sono già oltre 50 mila, ma solo 9.700 richieste sono state accolte».
Il disagio abitativo non è un fenomeno che interessa solo la Capitale, al contrario, come racconta Danese: «Il problema è gravissimo e consolidato nelle città metropolitane, e nonostante il nostro sia un paese in cui la maggior parte delle famiglie possiede una casa, per la prima volta in assoluto il disagio abitativo si sta estendendo anche alle città di provincia. È colpa dell’impoverimento provocato dal Covid. Inoltre, nonostante il blocco dell’esecuzione degli sfratti per morosità, molti di coloro che avevano un affitto irregolare hanno perso la casa».
Proprio il blocco degli sfratti sarà uno dei temi che il prossimo governo a guida Mario Draghi dovrà affrontare: nel decreto Milleproroghe c’è un’estensione di questa norma almeno fino alla fine di giugno, ma molte forze politiche vorrebbero almeno ridimensionarla, come Pd, Leu e M5S, mentre Italia Viva vorrebbe eliminarla. Le associazioni a tutela degli inquilini hanno chiesto «un confronto con le istituzioni per individuare strumenti per soluzioni alloggiative alternative e misure di sostegno a favore degli inquilini e dei proprietari che consentano di governare sui territori le procedure di sfratto in forte crescita e scongiurare un pericoloso aumento del conflitto sociale», scrivono ai gruppi parlamentari Sunia, Sicet, Uniat e Unione Inquilini.
In base all’ultima indagine di Federcasa e Nomisma, a causa della pandemia e dei conseguenti divieti una famiglia su quattro ha difficoltà a pagare l’affitto e il 40 per centro prevede di non riuscire a pagarlo nel prossimo anno. A soffrire sono anche le famiglie con un mutuo, le quali hanno generato un ammontare di crediti deteriorati in pancia alle banche di 15,6 miliardi di euro: sono 100mila le famiglie che rischiano di diventare inadempienti e 160mila quelle con la casa pignorata.
Complessivamente l’emergenza abitativa riguarda 1,8 milioni di famiglie, cioè una ogni cinque. Quelle che vivono in una residenza pubblica sono 900mila, mentre quelle in graduatoria – e quindi in attesa - sono 350mila: «Le altre 550mila non presentano la domanda per un alloggio pubblico perché sono disilluse, sanno che non riusciranno mai ad ottenerla, nonostante ne abbiano diritto», spiega Luca Talluri, presidente di Federcasa, associazione degli istituti per le case popolari. È invece Caritas ad accedere un faro sull’emergenza casa giovanile, evidenziando come quattro milioni di under 40 vivono ancora con i genitori perché non in grado di far fronte all’acquisto o all’affitto di una casa e il 65 per cento dei giovani che una casa la possiede deve dire grazie a mamma e papà che hanno contribuito alle rate del mutuo, un altro 20 per cento vive un’abitazione ereditata.
Eppure la casa continua a non essere una priorità per la politica italiana. Come racconta Carlo Cellamare, docente di Urbanistica a La Sapienza: «L’unico grande piano casa è quello della Legge Fanfani del 1949 che ha istituito il fondo Gescal. Quella stagione si è esaurita nel 1978 con l’ultimo piano decennale. Successivamente, con i governi Berlusconi, la politica dell’abitazione pubblica è stata sostituita da quella del social housing, dei consorzi e delle cooperative private che offrivano abitazioni a un prezzo accessibile, lasciando però intatto il problema dell’emergenza abitativa per i più fragili, che quelle abitazioni non potevano permettersele. Servirebbe un approccio integrato, una politica complessiva a favore della rigenerazione urbana di recupero degli edifici pubblici e privati, serve una politica complessiva che rimetta al centro il tema dell’abitare». L’introduzione del social housing avvenuta negli anni Duemila, e quindi l’idea che ci fosse un’impresa privata a occuparsi dell’emergenza abitativa, ha provocato una distorsione del problema. Si è dato grande rilievo ai 15 mila alloggi creati dal sistema privato, «che sono una goccia rispetto alla domanda di 350mila famiglie in lista d’attesa», commenta Talluri.
Con il Recovery Fund ci sarebbe l’opportunità di tornare a parlare di un piano casa ma, al netto della crisi politica che allunga i tempi di qualsiasi iniziativa di programmazione, «nel Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, non esiste un vero interesse. Si punta molto sulle riqualificazioni con il Bonus 110 per cento, che ha indubbiamente il merito di abbattere i consumi energetici delle abitazioni, ma è studiato per famiglie che hanno competenze, capacità e denaro da anticipare e che, quindi, non si trovano in una situazione di disagio abitativo», spiega Cellamare, evidenziando come il bonus rischia di accentuare i fenomeni di disuguaglianza nel paese.
L’Italia, del resto, è fanalino di coda in Europa per politiche dedicate alla casa. Basti pensare che in base all’Osservatorio Housing Europe solo il quattro per cento delle abitazioni italiane è di tipo popolare, contro il 15 per cento della Francia, il 24 dell’Austria, il 30 per cento dell’Olanda: «Le politiche abitative europee possono essere divise in quattro gruppi», spiega Cellamare. «Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito sono caratterizzati da un notevole intervento statale e i loro governi spendono oltre il tre per cento del Pil in questo settore; in Austria, Danimarca, Francia e Germania la spesa pubblica per l’edilizia abitativa è fra l’uno e il tre per cento del Pil; Irlanda, Italia, Belgio, Finlandia e Lussemburgo formano un gruppo disparato, ma presentano tutti un numero di alloggi a canone sociale ridotto e una spesa governativa per l’edilizia abitativa inferiore all’uno per cento del Pil; infine Portogallo, Spagna e Grecia dove gli alloggi a canone sociale sono di modesta qualità e e la spesa governativa è minima».
Fra i motivi dello sbando italiano nel settore della casa pubblica c’è l’incapacità dell’amministrazione pubblica di gestire le graduatorie e l’edilizia popolare: «A Roma i funzionari che se ne occupano sono solo 40», dice Francesca Danese, che continua: «In generale c’è scarsa formazione, poco personale (complice il blocco delle assunzioni) e anche per questo si generano liste d’attesa inquietanti, al punto che alcune famiglie aspettano un alloggio da oltre 15 anni. Da qui la tentazione di centinaia di persone senza casa di occupare stabili abbandonati. Bisogna ripartire da un piano nazionale di rigenerazione urbana che tenga conto delle mutate esigenze delle famiglie e della demografia. Ad esempio la volumetria delle abitazioni popolari è stabilita in base a un concetto di nucleo famigliare sorpassato, tipico degli anni Sessanta, quando le famiglie erano composte da quattro o cinque persone, mentre oggi ci sono molte persone sole, coppie senza figli, genitori single e, senza una revisione di questi parametri, queste persone difficilmente si vedranno assegnare un’abitazione pubblica, che invece viene data a famiglie migranti, perché più numerose. L’effetto è ovviamente quello di creare tensioni sociali».
Un ripensamento che, come viene proposto da Sabina De Luca del Forum Disuguaglianze e Diversità nel riquadro in queste pagine, deve interessare non solo le politiche abitative, ma anche quelle sociali.
Perché spesso la mano destra, ovvero l’ufficio urbanistica, non sa cosa fa la mano sinistra, ovvero i servizi sociali, e diventa difficile persino capire quante persone in lista d’attesa percepiscono il reddito di cittadinanza o altri sussidi. Il presidente di Federcasa Talluri invita a fare presto e sfruttare le risorse che verranno dal Recovery Fund, dal momento che la crisi provocata dalla pandemia del Covid-19 sta portando a un aumento della domanda di abitazioni a basso costo: «Serve una strategia nazionale di rigenerazione urbana per aumentare il numero di abitazioni popolari senza un ulteriore consumo di suolo, riqualificando le case già esistenti - demolendole e ricostruendole con un aumento volumetrico -, e sfruttando i palazzi pubblici dismessi, come le Caserme e gli uffici pubblici, per farne nuovi alloggi. Il Recovery Plan e i fondi della Banca Europea degli Investimenti, Bei, consentirebbero un effetto leva per finanziare questa rigenerazione senza pesare totalmente sulle casse dello Stato».