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Inchieste
febbraio, 2021

Come sta il nostro sistema sanitario nazionale a un anno dall’inizio della pandemia Covid-19

Il rapporto tra anestesisti e terapie intensive è sceso nonostante le assunzioni. Le malattie oncologiche e cardiache sono un disastro a sé. E molto altro ancora: radiografia della nostra sanità

Esattamente un anno fa, il 21 febbraio 2020, a Codogno, nel lodigiano, il primo italiano risulta positivo al Coronavirus. La notte si segnala il primo decesso, a Vo’ Euganeo, in provincia di Padova. Il giorno successivo il conto sale a sessanta infetti. Mentre la cronaca s’affrettava a tenere il passo della quotidiana diffusione, l’Espresso anticipa con la copertina “Sanità distrutta, Nazione infetta” quello che di lì a pochi giorni sarebbe stato palese: a causa di una dissennata e decennale politica di tagli, il Servizio Sanitario Nazionale non sarebbe stato in grado di reggere l’urto. Già prima della pandemia scarseggiavano medici e infermieri.

 

 

Era chiaro che i posti letto, per via di una eccessiva politica di razionalizzazione, sarebbero stati insufficienti a rispondere all’emergenza. Oggi alcuni economisti sostengono che il primato di vittime registrato in Italia (siamo prossimi ai 100mila decessi, peggio di noi ha fatto solo il Regno Unito con 112mila morti) sia dovuto a uno scarso finanziamento del Ssn: 2.989 dollari per abitante, contro i 4.690 di Francia e 5.472 della Germania.

 

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Un anno dopo L’Espresso torna a esaminare il Servizio Sanitario Nazionale, sfiancato da dodici mesi in prima linea, rivelando che negli ospedali «l’emergenza è tutt’altro che finita», come racconta un medico pneumologo dell’Ospedale San Gerardo di Monza: «A settembre, quando nessuno avrebbe previsto una seconda ondata tanto tempestiva e violenta, i posti letto dedicati al Covid-19 erano quasi tutti vuoti. Oggi che la Lombardia si trova in zona gialla, e quindi con ampia libertà di movimento, i posti letto Covid sono per metà occupati. E la variante inglese - soprattutto quella, ma c’è da considerare anche quella brasiliana e sudafricana - ci preoccupa: temiamo una terza ondata». Il livello di saturazione delle terapie intensive è al 24 per cento, mentre la soglia critica stabilita dal ministero della Salute è del 30 per cento. Insomma, manca pochissimo. Ecco perché Walter Ricciardi, il consigliere scientifico del ministro della Salute Roberto Speranza, invoca un nuovo lockdown totale, mentre il governo ha stoppato in zona Cesarini la riapertura della stagione sciistica e Giorgio Palù, il presidente di Aifa, l’agenza italiana del farmaco, ha preannunciato altri tre mesi di sacrifici.

 

Lo scenario non muta: si deve ancora scegliere se salvaguardare la vita degli italiani o l’economia. A cambiare invece è il livello di stress del Servizio Sanitario Nazionale: «Il Ssn e il management delle 191 aziende sanitarie stanno affrontando un momento di intensa pressione perché gestiscono in parallelo quattro cantieri strategici - la cura dei pazienti Covid-19, quelli non Covid-19, la vaccinazione di massa e la programmazione degli investimenti per il Recovery Fund -, con risorse e mezzi sufficienti per affrontarne uno solo», spiega Francesco Longo, professore di Scienze Politiche e Sociali alla Bocconi e ricercatore del Comitato Scientifico del Cergas, Centro di Ricerca sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale. Del resto le risorse del Ssn scarseggiano: in base all’ultima indagine della Corte dei Conti, nel 2021 la maggior spesa prevista è di 3,856 miliardi di euro, ma i finanziamenti stanziati sono di 945 milioni di euro, portando la spesa sanitaria complessiva a 121,370 miliardi.

 

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Il primo cantiere è l’emergenza Covid-19 che conta 14mila contagi e 400 morti al giorno, con le varianti in aumento e la terza ondata dietro l’angolo. «Non si tratta solo della cura dei pazienti gravi nelle terapie intensive e nei reparti di subintensiva, ma anche del contact tracing, i tamponi e la cura domiciliare dei malati, un’attività che da sola impegna una quota significativa della capacità produttiva del Ssn», continua Longo. Dice la Corte dei Conti che sono state attivate solo metà delle 1.200 Usca previste, ovvero le Unità Speciali di Continuità Assistenziale, istituite a marzo e composte da un medico e da un infermiere per monitorare i pazienti Covid-19 ai domiciliari o dimessi. In alcune regioni il tasso di attivazione è elevato, come in Basilicata, Liguria, Emilia Romagna; in altre è particolarmente ridotto, come in Campania (15 per cento), Lombardia (27 per cento), Lazio (34 per cento). C’è anche un enorme divario fra Regioni nell’attivazione di nuovi posti letto di terapia intensiva, come riporta l’ultima analisi di Agenas, Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali, con cinque regioni che non sono riuscite a raggiungere la soglia minima di sicurezza di 14 posti letto per 100mila abitanti: fra queste Lombardia, Calabria e Campania.

 

Il rovescio della medaglia è la carenza di medici anestesisti e rianimatori proprio nelle regioni che più si sono attivate per far spazio ai malati Covid-19. In base ai dati forniti da Altems, Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari, il rapporto tra anestesisti e posti letto di terapia intensiva era di 2,5 prima della pandemia e, nonostante l’assunzione di personale tramite bandi, il rapporto è sceso a 1,9. Il valore più basso si registra in Veneto (1,4), quello più alto in Calabria. «Per dieci anni si è fatta una programmazione delle scuole di specialità al di sotto delle esigenze. Il Covid-19 ha spinto il governo ad aumentare le borse di studio per la formazione di nuovi medici e gli effetti positivi li vedremo solo fra cinque anni», dice Alessandro Vergallo, presidente del sindacato degli anestesisti rianimatori Aaroi-Emac, che continua: «Nel frattempo c’è da gestire la pandemia, rispetto alla quale siamo poco ottimisti e ci preoccupa la cura di tutte le altre patologie, che non può essere costantemente rinviata».

 

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Il secondo cantiere è proprio la gestione ordinaria di tutte le altre malattie. Come spiega Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva, onlus per la tutela dei diritti di assistenza sanitaria: «Sono saltati due milioni di screening oncologici e l’associazione Gise, la società italiana di Cardiologia Interventistica, ci fa sapere che ci sono enormi ritardi nella gestione di patologie cardiologiche e cardiovascolari. C’è una pandemia parallela, con un aumento esponenziale delle morti oncologiche e cardiache, che già oggi sono le maggiori cause di decesso in Italia».

 

Rispetto al totale delle segnalazioni giunte a Cittadinanzattiva, oltre il 70 per cento riguarda le attività ambulatoriali bloccate e l’annullamento di visite già prenotate prima che esplodesse la pandemia (49,9 per cento). Nel 34,4 per cento si segnala la difficoltà di prenotare nuovi esami a causa del blocco delle liste d’attesa. La seconda ondata di Covid-19 non ha consentito di recuperare le prestazioni sanitarie rimandate e ha generato un effetto valanga, tanto che a inizio dicembre Lombardia, Puglia, Calabria e Campania hanno sospeso i ricoveri per i pazienti in classe A, ossia da garantire entro 30 giorni. Questo perché se sommiamo il personale sanitario impegnato nella gestione Covid-19 a quello impegnato nella vaccinazione, le energie da dedicare a tutti gli altri pazienti si è ridotto del 30 per cento rispetto al periodo pre pandemia. I ritardi non sono tutta colpa del Coronavirus, «il male maggiore deriva da 20 anni di scelte non fatte. Pesa l’assenza della telemedicina e di banche dati digitali che, ad esempio, obbligano i pazienti a portarsi lastre ed esiti da casa, perché il medico non è in grado di accedere ai documenti digitali», sentenzia Gaudioso di Cittadinanzattiva, che evidenzia come il fascicolo sanitario elettronico è attivo in 19 regioni e in cinque non viene usato dai medici.

 

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Il terzo fronte aperto è quello della vaccinazione di massa, con l’obiettivo di immunizzare il 90 per cento degli italiani entro l’anno. Questo significa individuare i centri vaccinali di massa, così come quelli piccoli decentrati, allestire spazi, individuare e formare il personale, organizzare la logistica distributiva dei vaccini, reclutare i pazienti, chiamare chi non si è iscritto o presentato. «Non è facile vaccinare 40 milioni di persone in poco tempo, in massima sicurezza, sia dal punto di vista vaccinale, sia per evitare assembramenti e contagi», spiega Longo. Il quarto cantiere è la predisposizione di piani di utilizzo dei finanziamenti provenienti dal Recovery Fund: «Alla sanità sono stati dedicati 19,7 miliardi di euro, ovvero 12 volte più di quanto era stato stanziato in conto capitale fino al 2019. Questo significa un grande sforzo di programmazione per investire nel modo più corretto e rapido quel denaro che deve essere speso entro cinque anni, pena la perdita del finanziamento».

 

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I quattro cantieri poggiano su fondamenta fragili, sia perché cambia costantemente lo scenario di riferimento (dalla numerosità dei contagi, alla disponibilità di vaccini) sia perché i governi - centrale e regionali - cambiano continuamente le proprie decisioni. Ad esempio, i finanziamenti alla sanità dal Recovery Fund da un’ipotesi iniziale di 68 miliardi, sono poi stati ridimensionati a 9 e successivamente a 19,7 miliardi: «È chiaro con quanta difficoltà le aziende sanitarie si apprestano a presentare i progetti, visto che da un giorno all’altro il budget per la propria struttura può passare da 500 a 100 milioni l’anno», afferma il professore della Bocconi, che continua: «Lo stesso vale per la campagna vaccinale, dove il commissario Domenico Arcuri un giorno chiede di estendere la vaccinazione a cinquemila persone al dì, quello successivo a tremila, in base alle informazioni che arrivano sulla capacità produttiva di vaccini. E l’incertezza è alimentata dalla difficoltà di comprendere chi detta le regole: è il commissario nazionale o le singole regioni? Restando sulla campagna vaccinale, ad esempio, da un lato il commissario Arcuri ha promesso di creare entro maggio i Padiglioni Primula Vaccinali, mentre tutte le regioni stanno predisponendo i loro spazi di vaccinazione di massa fin da marzo».

 

Da tempo l’incertezza tra accentramento e decentramento istituzionale alle Regioni che caratterizza il paese nella prassi e nel dibattito culturale, determina una stratificazione decisionale fra amministrazione centrale, regionale e locale che non aiuta a offrire risposte adeguate e in tempi certi: «Siamo di fronte a un bivio: o si sceglie di rafforzare gli organismi ordinari del Ssn, che sono regionalizzati, oppure di sostenere quelli emergenziali e straordinari, che sono accentrati, altrimenti si rischia di sprecare tempo e risorse». Per aumentare la produttività del sistema pubblico il governo Draghi dovrà scegliere tra funzioni centrali e regionali. Non farlo significherebbe sprecare i finanziamenti del Recovery Plan, perché già nel 2020 si è osservato che il problema non è l’extra stanziamento di risorse, bensì la capacità di investire correttamente quel denaro e di monitorare la spesa, azioni rese difficili dal sovrapporsi di diverse strutture di controllo. La soluzione la offre l’Europa, che chiede all’Italia di rafforzare le proprie istituzioni, dare autonomia e responsabilità al management pubblico locale, evitando di creare corpi speciali centrali che poi verranno smantellati al finire dell’epidemia.

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