Gli impianti termoelettrici sono ormai l’identità del territorio. E come per l'ex Ilva, anche qui si sconta la promessa di occupazione in cambio di danni alla salute

A Civitavecchia, uno dei porti più grandi del Mediterraneo, sessanta chilometri a nord di Roma, la sagoma slanciata delle ciminiere è ormai parte integrante di uno skyline che, per il resto, a stento supera il sesto piano di altezza. Per gli oltre cinquantamila abitanti della cittadina, la «centrale» – come viene colloquialmente chiamato l'insieme di impianti termoelettrici appena fuori dal centro, direzione Tuscia – non è più un corpo estraneo, un'anomalia del panorama: la sua presenza è stata interiorizzata dalla gente, e persino le band del posto la citano nel proprio nome. Come fosse una questione identitaria, ma rassegnata: allo stesso modo dell'ex Ilva di Taranto, anche qui si sconta la promessa di occupazione con inquinamento e danni alla salute.

 

«E del resto le patologie che nascono sono ricorrenti: cancro, malattie cardiovascolari, disturbi dello sviluppo neurologico», commenta Giovanni Ghirga, pediatra dell'Associazione medici per l'ambiente. «I più colpiti restano i bambini, con ritardi nel linguaggio che a Civitavecchia hanno assunto la forma di un'emergenza. Ma purtroppo è normale, quando ci si espone a emissioni tossiche di questa entità». Su un territorio già segnato da un fitto traffico navale, infatti, da decenni insistono le centrali di Torrevaldaliga Nord (a carbone, gestita da Enel) e Torrevaldaliga Sud (a turbogas, di Tirreno Power), oltre a una terza a Montalto di Castro, a trenta chilometri in linea d'aria. «La chiamo "servitù energetica"», spiega Maurizio Rocchi del comitato S.o.l.e., in prima linea per una svolta ambientalista da anni ventilata dalle autorità locali e mai davvero intrapresa. «La nostra è una città martire: ha sacrificato i polmoni per portare corrente al Paese; in cambio, solo malattie e un ecosistema distrutto». E ora, dice, si rischia «l'ultimo affronto».

 

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Perché, quello che a molti sembrava un passaggio storico, si sta trasformando in una reiterata consuetudine. Da una parte, il Piano nazionale integrato per l'energia (Pniec) ha costretto il nostro Paese a rinunciare al carbone entro il 2025, seguendo gli accordi di Parigi. Dall'altra, anche a Torre Nord – come nel resto degli impianti in Italia – la scelta di Enel per l'alternativa è ricaduta sul gas metano. «Che è certo un'energia più sana, ma come tutte le fossili emette polveri sottili pericolose per la salute, specie in una zona devastata come questa», puntualizza Mauro Scacchi, presidente di Legambiente Lazio. La sua associazione ha classificato quest'impianto come «il più inquinante» del nostro Paese, a fronte delle otto milioni di tonnellate di anidride carbonica emesse nel 2018. Uccide i polmoni, alimenta la crisi climatica globale. Proprio come la centrale a turbogas a cui starebbe per essere convertita. E che potrebbe persino essere affiancata da altre due "sorelle" dello stesso tipo – Enel e Tirreno Power hanno presentato i rispettivi progetti proprio recentemente. Si credeva nella liberazione, ci si rassegna a un futuro molto simile al passato.

 

O forse no: stavolta, dopo anni di immobilismo, la sensibilità alla questione sta crescendo. Ci sono i comitati civici, i ragazzi di Fridays for future, la politica locale che – in una città al momento in mano al centrodestra – sembra aver trovato coesione nell'opposizione alle politiche energetiche. La richiesta: una svolta fossil free con idrogeno verde ed energie rinnovabili, che bonifichi il territorio e coniughi per la prima volta ecologia e lavoro. E chissà che una mano non arrivi anche dal neonato Ministero della transizione ecologica. Sospira Scacchi: «L'uscita dal carbone è un'opportunità, non un modo per commettere i soliti errori. Se ce la lasciamo sfuggire, prepariamoci almeno ad altri trent'anni di morte. Ad altri trent'anni di sudditanza».

 

Sudditanza

È da quando è stato aperto il primo impianto, nel 1951, che va avanti quello che Rocchi definisce «un ricatto: occupazione in cambio di inquinamento». Lui, che è cresciuto nella Civitavecchia del dopoguerra, ricorda ancora come fossero il bisogno di lavoro in una città rasa al suolo dai bombardamenti e la fiducia nel progresso, all'inizio, a guidare le scelte di politici e dirigenti. Mancava consapevolezza ambientale: si guardava alle opportunità, di certo evidenti in una zona tanto strategica – al centro d'Italia, vicina al mare, col porto. E la gente, ignara delle conseguenze sulla salute, era entusiasta. «Nacque addirittura un istituto tecnico per garantire la preparazione idonea per essere assunti in centrale. Era un posto molto ambito». Gli fa eco, sempre dal comitato, Franco Padella, chimico con anni di ricerca nel campo della sostenibilità, spiegando come questo processo abbia però anche «distrutto il tessuto sociale del posto, rendendolo asservito a Enel e impedendo nei fatti la crescita dell'economia locale». In pratica, una «colonizzazione, in cui il colosso dell'energia è l'unico interlocutore». «Ma è difficile puntare, per esempio, sul turismo, se chi sbarca è costretto allo slalom fra le ciminiere», precisa Marco Piendibene, capogruppo del PD a Civitavecchia. Riflette: «Siamo diventati il giardinetto di chiunque abbia progetti di tipo energetico e industriale: "portano lavoro", si dice. Ma a che prezzo? È dagli anni Sessanta che andiamo avanti così, distruggendo l'ecosistema e l'economia di questo posto». Torre Sud infatti viene costruita già nel 1964. Poi altri impianti, finché nel 2003 Torre Nord non passa dall'olio combustibile al carbone, grazie alla controversa approvazione di una giunta comunale di centrodestra. Rimarrà l'ultima centrale di questo tipo a essere inaugurata in Italia. Per Legambiente, la sua nascita è «il colpo di grazia», visto che «all'epoca, al contrario che in passato, la classe politica e i dirigenti erano a conoscenza dei danni che avrebbe causato quel tipo di fossile».

 

Alla fine però ha vinto «il profitto», anche se qualcosa è successo lo stesso: per la prima volta sono emerse le contraddizioni del caso, con famiglie e persino partiti – tra cui Rifondazione comunista – spaccati fra chi sceglie il lavoro (e l'inquinamento) e chi l'ambiente. E quindi ecco le battaglie ecologiste, ma anche l'aumento dei decessi. Fra il 2006 al 2010, la mortalità per cause naturali e tumori maligni in città ha superato del 10% la media della regione. Oggi? «I dati restano preoccupanti. Il gas era la soluzione nel 2003: adesso è noto come emetta particelle finissime pericolose per la salute, mentre la tecnologia ha compiuto progressi», spiega Ghirga. Che insiste: «Il covid ci dovrebbe far riflettere sulla crisi climatica; invece, nel panico generale, l'unico risultato è che qualcuno ne approfitta per prendersi le autorizzazione necessarie a inquinare ancora». E se nel 2003 si era commesso l'errore di affidarsi a una fonte di energia già ritenuta superata, ora si rischia lo stesso: passare al metano quando l'Europa col Green new deal inizia a investire sull'idrogeno verde (cioè quello pulito, prodotto senza emissione di CO2). Rendendo obsoleto il Pniec, che invece legittima la scelta di Enel. Alla quale, tra l'altro, corrisponderà una drastica riduzione dei dipendenti nel sito di Civitavecchia. Sta venendo meno persino il «ricatto» del lavoro. E anche la Fiom ha cominciato con gli scioperi, contro il gas e a favore di una svolta green.

 

«L'ultima occasione»

Ma allora perché il gas? Enel, in sintesi, ritiene si tratti di un'opzione obbligata dalle tempistiche: un altro tipo di transizione entro il 2025 non sarebbe sostenibile per il fabbisogno del Paese. Ma secondo Legambiente basterebbe tenere accese le centrali già esistenti dalle attuali 3.200 ore annue a 4mila per sventare ogni necessità di riconversione a gas. Perché semmai «il punto è il Capacity Market», lo schema di mercato impostato dal ministero dello Sviluppo economico che sfavorisce le rinnovabili e offre sovvenzioni alle centrali a gas. «Costruire impianti a metano, in Italia, è ancora vantaggioso a livello economico, nonostante l'Europa abbia decretato che il turbogas rappresenta il passato», ammette Scacchi. Tant'è che in questa transizione, puntualizza Padella, «solo noi e la Polonia l'abbiamo scelto»

 

Non che le strutture esistenti debbano essere chiusi all'istante: per ambientalisti ed esperti, basta non aprirne altre e dare inizio a un dialogo riguardo l'utilizzo di fonti come il fotovoltaico per il futuro dei siti dismessi. E nel caso di Civitavecchia, per esempio, il S.o.l.e. propone un sistema "a isola" integrato col porto, che alimenti le navi con energia rinnovabile «come avviene in via sperimentale già all'estero». Quello, oppure «per esempio le pale eoliche offshore», spiega Scacchi. «Sistemi di questo tipo vanno migliorati, resi più efficienti; ma portano lavoro anche in quanto a ricerca e sviluppo. Sono il futuro, c'è solo da guadagnarci. Il fossile è morto: scegliendolo, trasformiamo un'opportunità nell'ennesimo disastro. Ci condanniamo a restare senza lavoro, a distruggere dell'ecosistema e persino a comprare materie prime dall'estero, con l'aumento di traffico e relativo inquinamento».

 

Per questo, la partita è doppia. Da una parte ci si gioca la riqualifica del territorio. Dall'altra, Civitavecchia potrebbe diventare un modello sostenibile da emulare in tutta Italia. Chiaro: nel caso in cui venisse confermato il metano «si creerebbe un precedente negativo, che vincolerebbe le scelte nel resto del Paese», ammette Legambiente. Ma la battaglia contro il surriscaldamento ambientale passa anche dall'abbattimento delle emissioni di CO2. E per Scacchi, comunque, «dipenderà dal ministero dello Sviluppo economico, se accetterà o meno di voltare pagina e seguire l'Europa sul tema del green». Perché «Enel percorre proprio quelle vie, ergo bisogna insistere a livello governativo» conferma Piendibene, che nella soluzione è invece massimalista. «Vogliamo un futuro diverso: se qualcuno desidera costruire un impianto a metano al posto di questo a carbone, che lo faccia direttamente altrove». L'era della servitù energetica «deve finire, per quanto la politica locale – più che compattarsi e sensibilizzare le istituzioni – non può fare molto».

 

Ma sostenibilità o meno, Civitavecchia è in ogni caso a un bivio. «Questa è l'ultima occasione», ammette Padella. «Fra dieci anni le centrali a gas verranno comunque dismesse, superate dall'idrogeno verde e dalla necessità di ridurre l'impatto ambientale». Tradotto: il rischio è che, scegliendo il fossile, «la crisi e la disoccupazione che ne deriveranno si divoreranno questa città, disperdendo i giovani e soffocando gli imprenditori più di quanto sia successo in passato». Questione di prospettive: «Un polo ecologico significa salute, lavoro, sviluppo e integrazione con le realtà locali. Al contrario, diventeremo la periferia-dormitorio di Roma. Una volta finita l'era del fossile e dello sfruttamento, Enel se ne andrà lasciandoci solo i rottami degli impianti. E tutto intorno, il deserto».