Bruxelles contro Usa e Gran Bretagna che fanno scorta di dosi a spese dell'Unione Europea. E mentre le big del farmaco hanno ricevuto miliardi dai governi per la ricerca, i contratti di fornitura restano segreti

Dietro il caso AstraZeneca c’è la guerra dei vaccini tra multinazionali e grandi potenze

Colpito e affondato. Lunedì 15 marzo il siluro dell’Agenzia europea del farmaco (Ema) contro AstraZeneca ha cambiato le carte in tavola nel grande gioco dei vaccini. Dopo l’ok ricevuto in seconda battuta dall’Ema, la multinazionale anglo-svedese resta in campo, ma dovrà riconquistare in tempi brevi la fiducia dell’opinione pubblica internazionale, perlomeno quella del Vecchio continente.

 

Da settimane, in verità, l’azienda guidata dall’amministratore delegato Pascal Soriot era sulla difensiva. Le dichiarazioni contraddittorie di politici e autorità sanitarie sull’efficacia del vaccino per la popolazione più anziana hanno alimentato la diffidenza dei cittadini. Mentre i ritardi nelle consegne delle dosi promesse all’Unione Europea erano da tempo al centro di polemiche e controversie con i governi. A fine febbraio, in un’intervista al quotidiano Frankfurter Allgemeine, anche Angela Merkel aveva parlato di «problemi di accettazione» per il vaccino di AstraZeneca. E adesso, a tre settimane di distanza da una dichiarazione che molti osservatori hanno interpretato come l’annuncio della tempesta in arrivo, siamo arrivati a un punto di svolta in una battaglia che vale decine di miliardi di euro e coinvolge i giganti globali dell’industria farmaceutica variamente sostenuti dalle grandi potenze.

 

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È il nuovo nazionalismo dei vaccini. La cooperazione internazionale tanto sbandierata a parole, cede il passo all’egoismo dei singoli governi, pressati dai propri elettori e terrorizzati di fronte al baratro di una prolungata recessione economica. Ogni Stato guarda al proprio interesse, a maggior ragione quando si tratta di mettere fine a una pandemia che è già costata circa 2,7 milioni di morti nel mondo e migliaia di miliardi euro in termini di Pil: il 6 per cento di quello globale nel 2020 e forse il 4 per cento quest’anno.


Negli Stati Uniti, il neoeletto presidente Joe Biden ha di fatto confermato la linea protezionista del suo predecessore Donald Trump, chiudendo le frontiere all’export di vaccini. Ancora nei primi giorni di marzo, nonostante le pressioni della diplomazia europea, Washington ha ribadito di non aver nessuna intenzione di consentire la vendita all’Unione europea degli stock prodotti e poi accantonati nei magazzini Usa. Il divieto riguarda anche le dosi di AstraZeneca, almeno 10 milioni, che giacciono invendute in attesa del via libera dell’ente statunitense di sorveglianza, previsto non prima di maggio. Dopo quanto è successo nei giorni scorsi è improbabile che Bruxelles torni alla carica per ricevere quello stock di vaccini custodito oltre Atlantico. Di certo lo scontro con gli Stati Uniti illumina una volta di più la debolezza della posizione dell’Unione europea, costretta di volta in volta a inseguire le multinazionali del farmaco oppure a subire l’iniziativa americana e quella di Londra, fresca di Brexit, con il primo ministro Boris Johnson che non vede l’ora di far valere i presunti vantaggi della sua scelta isolazionista.

 

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Nell’estate dell’anno scorso la Commissione di Bruxelles ha siglato sei contratti con altrettanti produttori di vaccino per una fornitura complessiva di 2,3 miliardi dosi da distribuire ai 27 paesi membri nell’arco dei successivi due anni. Non esistono dati precisi sul valore di questi accordi, ma l’ipotesi più accreditata fissa in circa 4,5 miliardi di euro l’impegno finanziario complessivo dell’Unione. Oltre a Pfizer, AstraZeneca, Moderna e Johnson & Johnson, i cui vaccini sono già stati autorizzati dall’Ema, le intese riguardano anche la tedesca Curevac e l’alleanza anglo-francese Gsk-Sanofi, che ancora devono completare i test clinici sui loro farmaci anticovid. Ai primi dell’anno però, quando la partita è entrata nel vivo e sono cominciate le consegne, l’Europa si è accorta di aver giocato male le sue carte. Gli Stati Uniti, che hanno varato l’operazione Warm Speed da quasi 12 miliardi di dollari, e la Gran Bretagna, che ha firmato accordi con quattro produttori (100 milioni di dosi dalla sola AstraZeneca), si erano serviti in anticipo, spuntando le condizioni migliori.

 

Pascal Soriot, Ceo di AstraZeneca


«La firma del primo contratto tra AstraZeneca e il governo di Londra è di tre mesi precedente all’intesa dell’agosto 2020 con la Ue», ha dichiarato a fine gennaio il numero uno della multinazionale anglo-svedese, Pascal Soriot, in risposta alle critiche di chi lo accusava di privilegiare le forniture verso Londra rispetto a quelle destinate ai paesi Ue. Alcuni commentatori, come l’economista tedesco Daniel Gros, hanno segnalato che l’Unione europea ha mercanteggiato troppo sul prezzo senza ottenere impegni imprecisi e vincolanti da parte delle imprese in merito ai tempi e alle quantità delle consegne. AstraZeneca ne ha subito approfittato. I 100 milioni di dosi pattuiti nel contratto per il primo trimestre dell’anno sono dapprima diventati 31 milioni per poi scendere ancora. Alla vigilia dello stop precauzionale deciso dell’Ema lunedì 15 marzo eravamo intorno ai 12 milioni. Peggio ancora. Mentre la diplomazia di Bruxelles arrancava all’inseguimento di multinazionali del farmaco come Pfizer e AstraZeneca si è scoperto che grandi quantitativi di dosi hanno preso il volo dagli stabilimenti europei di quelle stesse aziende verso Stati Uniti e Gran Bretagna.

 

Stephane Bancel, Ceo di Moderna


Un’inchiesta del New York Times che citava documenti riservati della Commissione ha rivelato che tra il primo febbraio e il 9 marzo almeno 34 milioni dosi targate Ue sono state esportate, in gran parte con destinazione Londra.

 

A fine febbraio, il governo di Roma ha fatto ricorso una norma d’emergenza da poco approvata in sede europea per bloccare un carico di 250 mila vaccini AstraZeneca in partenza dall’Italia verso l’Australia, dove peraltro la pandemia è in ritirata ormai da tempo, con poche decine di casi al giorno. Nel nostro Paese, per la precisione ad Anagni, si trova uno stabilimento, controllato dal gruppo statunitense Catalent, che si occupa del confezionamento delle dosi di vaccino per conto della multinazionale guidata da Soriot, la cui rete produttiva si estende anche alla Germania, al Belgio e all’Olanda. Secondo quanto dichiarato dallo stesso Soriot, i ritardi nelle forniture si spiegherebbero con contrattempi e imprevisti vari che hanno rallentato il lavoro di questi impianti. Le difficoltà sono in parte comprensibili. Per far fronte a una domanda di farmaci che nel frattempo è esplosa, i laboratori sono stati costretti ad aumentare la produzione a un ritmo fino a poco tempo fa neppure immaginabile. Guarda caso però, si ribatte a Bruxelles, i problemi si sono concentrati nelle fabbriche in territorio Ue, mentre tutto è andato liscio sul suolo britannico, dove si producono i vaccini acquistati dal governo di Londra.


In questo clima di sfiducia, tra veleni e accuse reciproche, nessuno si fida più di nessuno. Neppure tra i paesi Ue. La Germania, il paese che più si è esposto per il blocco precauzionale ad AstraZeneca, è parte interessata della vicenda. Batte bandiera tedesca, infatti, la Biontech che ha sviluppato insieme a Pfizer il rivoluzionario vaccino anticovid con la tecnologia mRna. I profitti miliardari dell’operazione verranno spartiti in parti uguali tra le due società. Da qui il sospetto che l’accanimento di Berlino contro la multinazionale anglo-svedese sia in parte spiegabile con la difesa di ben precisi interessi commerciali.


Alla periferia dell’Unione, intanto, c’è già chi preferisce far da sé. L’intesa tra i Paesi Ue prevede che la gestione delle forniture venga delegata a Bruxelles, che trattando per tutti acquista maggior peso al tavolo dei negoziati commerciali. L’Ungheria di Viktor Orbán, in grave difficoltà nella gestione della pandemia, non ha però esitato a rompere gli accordi per rivolgersi in cerca di aiuto alla Cina, che ha prontamente risposto.

 

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A Budapest è così arrivato un carico di vaccini Sinopharm. Vince Pechino, quindi. E vincono anche gli intermediari che hanno facilitato l’operazione, visto che secondo quanto ammesso dallo stesso governo ungherese, la consegna è stata recapitata da una società terza che si è fatta pagare le dosi 30 euro ciascuna, un prezzo ben superiore rispetto, per esempio, ai 15 euro circa del contratto tra Unione europea e Pfizer. I cinesi, al pari dei russi con il loro Sputnik, cercano di farsi largo sul ricco mercato europeo sfruttando le divisioni e i conflitti tra i Paesi Ue.

 

È uno scontro sotterraneo, una guerra di spie e di anonimi mediatori. Del resto, neppure Bruxelles ha scelto la trasparenza. I dettagli dei contratti di fornitura siglati nell’arco dell’ultimo anno dall’Unione Europea, così come quelli analoghi di Stati Uniti e Regno Unito, restano un segreto ben custodito dai singoli governi. E diventa quindi complicato valutare quali saranno i profitti delle multinazionali impegnate nel nuovo gigantesco business dei vaccini. Secondo le stime più aggiornate Moderna e Pfizer dovrebbero quest’anno incassare tra i 15 e i 20 miliardi di euro ciascuna. Più difficile immaginare a quanto ammonteranno gli utili. Forse il 15 per cento dei ricavi, forse di più. Fin d’ora, comunque, si può dire che AstraZeneca si è mossa su una strada diversa rispetto a Moderna e Pfizer, che insieme a Biontech hanno da subito dichiarato di voler realizzare un profitto dalla vendita dei loro vaccini. AstraZeneca invece ha garantito prezzi di gran lunga più bassi, riducendo a zero i propri margini di guadagno. È una strategia a lungo termine, che ha come obiettivo finale quello di conquistare la fetta più larga possibile del mercato una volta passata la pandemia. E cioè quando, nei prossimi anni, la vaccinazione anticovid diventerà, come prevedono molti studiosi, una prassi comune come è oggi quella contro l’influenza stagionale.


Adesso, come minimo, AstraZeneca dovrà rivedere i propri programmi. Sul piano dell’immagine e della reputazione i rischi sono molto alti. I bilanci invece potrebbero salvarsi. Non per niente, subito dopo l’intervento dell’Agenzia europea del farmaco, i titoli del gruppo hanno addirittura messo a segno alcuni rialzi alla Borsa di Londra, perché gli investitori sono convinti che la multinazionale, forte di un ricco portafoglio di farmaci, non avrà grandi problemi in futuro. Il mondo assediato dalla pandemia ha un gran bisogno del vaccino. AstraZeneca invece può anche farne a meno. E continuare a guadagnare miliardi di euro ogni anno.

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