Negli ultimi 5 anni è questa la cifra impiegata dal nostro Paese. Con i fondi per favorire lo sviluppo di paesi africani impiegati per aerei, navi e droni

Al di là dell’Oceano la questione migranti è plasticamente rappresentata dal muro di Tijuana, che separa il Messico da San Diego. Il muro della Vergogna, lo chiamano i messicani. Una tangibile barriera di sicurezza incarna il gretto tentativo yankee di stoppare il flusso umano proveniente da Centro e Sud America.

 

In Europa, non essendo possibile costruire una muraglia in mezzo al Mar Mediterraneo, tantomeno sulle spiagge di Lampedusa, si è quindi lavorato a una cortina fatta di fondi, finanziamenti e progetti utili a materializzare armi, posti di blocco militari, droni, sistemi di sorveglianza e tanto altro ancora per stoppare gli sbarchi sulle coste italiane di chi proviene da Niger, Sudan, Libia, Tunisia, Etiopia.

 

Quell’immaginaria linea Maginot che separa i due continenti è composta da 317 linee di finanziamento, gestite dall’Italia con fondi propri e parzialmente cofinanziati dall’Unione Europea, costate ai contribuenti 1,33 miliardi di euro tra il 2015 e la fine del 2020. A calcolarlo è il dossier The Big Wall, Il Grande Muro, realizzato da ActionAid Italia, l’organizzazione internazionale impegnata nella lotta alle cause della povertà, che per la prima volta rivela quanti soldi il nostro paese ha investito nel contrasto all’immigrazione irregolare e come sono stati spesi.

 

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Un lavoro complesso perché, come spiega Roberto Sensi, Policy Advisor Global Inequality di ActionAid, «non esistono dati ufficiali che raccolgono, organizzano e rendono accessibili le informazioni sulla distribuzione di queste risorse pubbliche. Sono serviti mesi di lavoro per ricostruire, attraverso numerose richieste di accesso effettuate dalla società civile, quanti e quali fondi sono stati utilizzati per contrastare il fenomeno dell’immigrazione». Risultato: la metà delle risorse - 666,3 milioni - è stata usata per il controllo dei confini, ovvero per l’acquisto di 16 imbarcazioni, due aerei, cinque elicotteri, sette droni, più svariati sistemi radar e di intercettazione da parte della Guardia di Finanza, della Marina Militare e della Polizia di Stato.

 

A vincere gli appalti sono quasi sempre Leonardo spa, il cui maggior azionista è il ministero dell’Economia e delle Finanze, e i Cantieri Navali Vittoria che, ironia della sorte, negli stabilimenti navali di Monfalcone, in Friuli Venezia Giulia, impiegano soprattutto manodopera straniera: sono loro stessi a realizzare le unità marine che contribuiscono a respingere i migrati nel Mediterraneo.

 

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«Il controllo dei confini, come rileva la nostra indagine, ha poco a che vedere con l’aiuto dei migranti, molto con la repressione dei flussi migratori. Un sostegno fondamentale è arrivato dalla stessa Unione europea, che ha finanziato per il 65 per cento la spesa italiana per il controllo delle frontiere», spiega Sensi. Mentre lo Stato italiano va all’incasso, perché i soldi stanziati per l’acquisto di nuovi equipaggiamenti finiscono nelle casse dell’ex Finmeccanica, e quindi del ministero dell’Economia. Sensi spiega inoltre che «quel contributo è destinato ad aumentare nei prossimi anni come prevede il nuovo quadro finanziario pluriennale europeo, in vigore da quest’anno e fino al 2027, che ha stabilito un capitolo specifico per le migrazioni, destinate per lo più al controllo dei confini e ai rimpatri».


Per un totale di 195,3 milioni di euro, la seconda voce di spesa è quella delle cause profonde: rappresenta il 14 per cento delle spese totali. Si tratta di 97 progetti di cooperazione allo sviluppo nei paesi di origine o di transito che puntano a migliorare le condizioni sociali ed economiche per evitare che la popolazione locale sia costretta a lasciare i propri territori: sostanzialmente risponde alla logica dell’”Aiutiamoli a casa loro”. Il primo paese a beneficiarne l’Etiopia e molti dei fondi - 19,8 milioni - sono stati usati dal governo locale per realizzare il Youth Employability Center a Dahir Bar, per ovviare al problema dei giovani disoccupati e quindi potenziali migranti. «L’obiettivo primario del progetto, secondo il documento di finanziamento, è la “riduzione della migrazione irregolare, tramite un miglioramento delle condizioni di vita”. Ma in quel documento non corrisponde alcun indicatore progettuale: di fatto il raggiungimento dell’obiettivo non è verificabile», si legge nel dossier The Big Wall. Detto altrimenti, non è possibile sapere se, dopo aver partecipato al progetto, i giovani hanno trovato un’occupazione o sono comunque saliti su un barcone alla volta di Lampedusa.

 

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Infatti il meccanismo di ripartizione di quei fondi segue altre logiche: «Più uno Stato si impegna nella repressione della migrazione e nei rimpatri, più riceve finanziamenti per lo sviluppo locale. Il fine ultimo è sempre quello di ridurre gli sbarchi e poco interessa sapere se i finanziamenti siano serviti per migliorare le condizioni di vita di chi rimane in Africa», dice Sensi, che racconta come non a caso al ministero degli Esteri, per via di una norma contenuta nel Decreto Sicurezza bis voluto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, è stato istituto un Fondo Premialità per i Rimpatri, che ha una capienza di 50 milioni di euro, e sostiene quei paesi africani che più si impegnano ad ostacolare la dipartita dei loro connazionali, «anche se le azioni messe in atto sono di tipo repressivo», commenta Sensi. È un funzionario del ministero degli Affari Esteri, che chiede l’anonimato, a spiegare che quel denaro veniva elargito a piene mani, senza troppi vincoli: «Il mantra era che più sviluppo avrebbe fermato le migrazioni e in un certo momento ha funzionato per tutti. Ha funzionato per l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, ente che fa capo al ministero degli Esteri, e che giustificava i propri fondi di fronte a una politica spaventata dalla questione degli sbarchi; e ha funzionato per molte Ong, che hanno sfruttato le migrazioni, inserendo questa voce come il prezzemolo nella presentazione di richieste di finanziamento», spiega ad ActionAid un funzionario del ministero degli Affari Esteri. Eppure molti studiosi dei fenomeni migratori nutrono perplessità sulla strategia “aiutiamoli a casa loro”.

 

Michael Clemens, economista dello sviluppo che lavora al Center for Global Development di Washington, sostiene infatti che proprio lo sviluppo locale creato su modello delle economie occidentali può far aumentare le migrazioni. E ancora, Bram Frouws, direttore del Mixed Migration Center, un think-tank che studia la mobilità internazionale, sottolinea come l’approccio delle “cause profonde” paradossalmente rimane sempre in superficie: «Non si parla mai di accordi internazionali per salvaguardare la pesca, che è una risorsa per le comunità locali, tantomeno di accaparramento di terre da parte di speculatori, di grandi opere o di corruzione e vendita di armi o di preservazione dell’ambiente, che è una delle prime cause di migrazione, ma di una generica vulnerabilità economica, della scarsa stabilità degli stati. Di un fenomeno quasi astratto, in cui gli attori europei si esentano da qualsiasi responsabilità».

 

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Inoltre, in nome della lotta alla migrazione irregolare, l’intervento non avviene nei paesi più poveri, ma in quelli ad alta incidenza migratoria: ecco perché Etiopia e Sudan, che sono paesi in cui transita la tratta dei migranti, si spartiscono rispettivamente 47 e 32 milioni di euro. Recentemente anche il Niger è diventato un grande beneficiario di questi fondi. Non perché è uno dei paesi più poveri al mondo, ma perché da qui passa il flusso di persone che, dopo aver attraversato il paese fino alla città di Agadez, scompare nel Sahara per poi emergere, giorni dopo nel Sud libico.

 

Nel 2016 l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni registra quasi 300mila persone in transito lungo quella tratta e così, dall’anno successivo, l’Italia stanzia 50 milioni per lo sviluppo del Niger: «I documenti progettuali contengono una serie di condizioni per la prosecuzione al finanziamento, tra cui l’aumento dei controlli lungo le piste per la Libia e l’adozione di normative stringenti per il controllo delle frontiere», rivela l’indagine di ActionAid. L’effetto è il blocco della libera circolazione garantita all’interno della Comunità Economica degli stati Uniti dell’Africa Occidentale, una sorta di spazio Schengen tra 15 paesi della zona: «Sarebbe come immaginare che l’Unione Africana convincesse l’Italia a non far scendere i cittadini francesi al di sotto di Roma perché potrebbero imbarcarsi per l’Africa», commenta Sensi.


In nome dello stop alla tratta, l’allora ministero dell’Interno italiano, Angelino Alfano, appoggia anche l’Egitto e lo fa nel 2016, a ridosso dell’omicidio del ricercatore Giulio Regeni, in cui la complicità e la copertura da parte delle forze di sicurezza egiziane sembrano fin da subito evidenti: «È assurdo, ma l’Italia inizia a sostenere l’Egitto nei negoziati con l’Unione Europea proprio in quel periodo», spiega l’avvocato Muhammed Al-Kashef, membro della Egyptian Initiative for Personal Right e oggi rifugiato in Germania.

 

L’Italia finanzierà un software per la presa delle impronte digitali in uso alla polizia locale egiziana e la creazione di un’accademia di polizia al Cairo per formare agenti di frontiera: «Roma poteva giocare un ruolo in Egitto, sostenere il processo democratico dopo la rivoluzione del 2011, ma ha preferito cadere nella trappola della migrazione, temendo un’ondata migratoria che non ci sarebbe mai stata», sostiene Al-Kashef.


Anche il capitolo della governance, a cui sono dedicati 146,2 milioni di euro, ovvero l’11 per cento della spesa totale, si ricollega in modo significativo all’obiettivo di accrescere il controllo delle frontiere, dotandoli di apparati amministrativi, strutture di coordinamento e quadri normativi contro la tratta. Poco o nulla (14,7 milioni) resta per per i progetti di sensibilizzazione, ovvero per fornire informazioni sui rischi della migrazione irregolare, finanziati tramite i progetti di cooperazione internazionale del ministero degli Esteri e dell’Interno. Gli interventi di sensibilizzazione sono a loro volta sovrapposti, dentro lo stesso progetto, a interventi di contrasto alla tratta e al traffico di migranti (il cosiddetto antitraffiking) a cui sono stati destinati 142,5 milioni. Una parte significativa di questi interventi è rivolta alla lotta agli scafisti del Mediterraneo, che complessivamente è servita ad arrestare 143 scafisti e distruggere cinquecento imbarcazioni: «Ma questa attività non ha condotto a interventi giudiziari e di indagine in grado di risalire ai vertici delle organizzazioni criminali. Di più, ha contribuito a reimmettere le persone intercettate in circuiti di detenzione e partenza», si legge nel dossier di ActionAid. Una parte minoritaria di questa spesa è invece dedicata alla protezione delle vittime di tratta e alla cooperazione tra forze di polizie e apparati giudiziari per casi di tratta internazionale di persone a scopo di lavoro forzato o prostituzione.


Novantadue milioni di euro sono destinati alla protezione dei rifugiati, mentre un capitolo di spesa importante è destinato ai rimpatri forzati o volontari: sono 64 milioni di euro. «Anche qui, non si tiene traccia di quale strada prendano queste persone dopo essere tornate in Africa. È probabile che molte, non avendo alternativa, cerchino nuovamente di imbarcarsi alla volta dell’Italia», dice Sensi. Infine, appena 15,1 milioni di euro - ovvero il 1,1 per cento della spesa totale - sono stanziati, «per quella che potrebbe rappresentare una delle crepe più importanti, e finora quasi impercettibili, nel Grande Muro», dice Sensi, che aggiunge: «Il modo migliore per stoppare la tratta irregolare dei migranti è rendere legale la migrazione». Ma in questo grande piano di finanziamenti e convenzioni c’è una regola che non viene mai meno: dai 25 paesi africani nessuno deve arrivare in Italia. Unica eccezione ammessa è partire con un visto. I funzionari delle ambasciate, però, hanno istruzioni precise: chi non ha qualcosa a cui tornare non va accettato. E non valgono amori e affetti, ma solo rendite, proprietà, affari, posizioni.